20 de noviembre de 2011
BANANE CACAO E STREGONI
Nella traiettoria delle mie necessità c’è un lungo periodo trascorso
lontano dalla terra natia in altre latitudini di questo mondo.
Espatriato in Sud America, nel Venezuela, cercando migliori condizioni
di vita di quelle che mi poteva offrire in quel momento la mia patria. Fino al
momento di partire lavoravo come fotoreporter a Milano. Così partii con un buon
bagaglio di esperienze, consigli e forme sul come maneggiare questa attività.
Fra tutto questo mi rimasero chiari alcuni suggerimenti e insegnamenti,
talvolta detti e imposti con una certa pressione, al fine che venissero messi
in atto durante il lavoro. Ciò che tra l’altro mi rimase presente fu l’esortazione,
quando per varie ragioni l’attività si tornava stagnante, a uscire e
fotografare qualsiasi cosa che avesse carattere di attualità, di curiosità, di
interesse per il grande pubblico. Quindi giunsi nel Venezuela animato da questo
spirito di ricerca, di curiosità e interesse per tutto ciò che non fosse comune
o apparisse di una certa originalità. A voglia se in questo Paese esotico vi
erano cose interessanti nel campo del reportage. Mi diedi conto che se avessi
dovuto tradurre in immagini queste cose avrei dovuto farlo subito, prima che mi
assuefacessi di loro, poiché, se avessi messo del tempo di mezzo, non avrebbero
causato le stesse emozioni. Voglio far notare che in quel Paese non avrei
potuto, almeno al principio, esercitare il fotoreportage in quanto non
conoscevo la lingua, l’ambiente, il mezzo per pretendere di svolgere tale
attività. Ero emigrato per dedicarmi al lavoro di studio ed è ciò che feci per
tutto il lungo tempo che rimasi in Venezuela. A Milano comunque aspettavano
qualche mio reportage interessante su qualche argomento di questo Paese,
essendo rimasto tra noi un accordo informale che, se mi fosse presentata una
buona occasione, lo avrei fatto. Però al principio qui trovai un ambiente
piuttosto ostile, molto poco condiscendente. Certo che il virus del
fotoreporter lo avevo nel sangue e non mi abbandonò mai. Fin dai primi giorni
furono molte le cose e situazioni che si prestavano per essere tradotte in
immagini, documentare i grandi contrasti che più si evidenziavano nella vita
quotidiana e davano motivo a comparazioni, considerazioni, che si scontravano
con al nostra origine, con la nostra cultura, formatasi da un lungo processo
evolutivo. Sono certe manifestazioni primitive che perdurano ancora in una
certa fascia sociale che più mi colpirono e che si presentano come soggetto
alla testimonianza che vorrei dare a conoscere. Ci fu un’esperienza che volevo
tradurre, documentare fotograficamente, però non fu possibile per varie
ragioni, quindi decisi di viverla personalmente. Molto si è scritto sui Paesi
del Sud America, da romanzieri, narratori, novellisti, giornalisti, ma poco si è
detto di quel mondo magico, esoterico, che esiste ancora sfidando l’evoluzione
culturale e il modernismo. Nel Venezuela tra la mescolanza di razze sussiste il
metticiato e da li affiorano inevitabilmente per atavismo, pure dopo molti
secoli, usi, costumi, riti di eredità genetica. Inoltre appaiono comportamenti
che, anche questi, sono riflessi non dimenticati dei patimenti sofferti dalla
razza negra durante lo schiavismo e così anche dagli indios per lo sterminio e
le crudeltà sofferte, da parte dei conquistadores spagnoli, e la
discriminazione sofferta sia dagli uni che dagli altri, che li portò all’isolamento
sociale per secoli fin quando Simon Bolivar non liberò cinque nazioni
sudamericane che penavano sotto lo stesso regime oppressivo.
Altre manifestazioni di questo rango sociale vengono alla superficie da
radici ancestrali, espressioni magiche rese evidenti dalla “brujeria”
(stregoneria). Di grande importanza è la musica della razza nera che si esprime
maggiormente con strumenti a percussione costruiti in modo artigianale da
tronchi di legno scavati che, a seconda del diametro, daranno un suono diverso
e diversi sono i loro nomi: curbeta, mina, tambor e questi possono variare
secondo le regioni. Sono percossi, suonati con grande maestria e il loro
linguaggio, il loro ritmo è molto interessante nell’arte musicale, e risultano
suoni e ritmi non meno conturbanti, suggerendo voci misteriose di magia bianca
e nera. Destano tanto interesse questi ritmi, specie durante i loro
festeggiamenti che richiamano in massa la gente negra dove non mancano canti,
suoni e balli negroidi.
Non manca nelle loro feste la presenza di compositori, musici,
musicologi di fama mondiale, i quali asseriscono che se nella musica leggera
ritmica dovrà nascere un nuovo ritmo, la fonte sarà la musica negroide. I loro
festeggiamenti più solenni sono il 24 giugno, giorno di San Giovanni, dove,
oltre alla musica assordante dei tamburi, ci sono cortei, balli, il tutto
accompagnato da bevande alcoliche in quantità. Questa festa ha una
caratteristica unica ed è che, ogni uomo veste in frac, con i piedi scalzi,
callosi e polverosi, con cilindro, camicia bianca, cravatta adeguata,
rappresentando così una parodia dei loro padroni. Questo è il giorno della
rivincita burlesca verso i loro proprietari e risale ancora ai tempi dello
schiavismo dell’epoca coloniale. Il giorno di san Giovanni era permessa loro
questa farsa grottesca che si ripete ancora oggi nelle regioni dove risiedono i
discendenti degli schiavi sbarcati qui secoli fa, loro ancestri provenienti
dall’Africa.
Questa commedia che si ripete ogni anno forse trova una spiegazione nel
fatto che si svolge una volta all’anno, dentro la ristrettezza e la disciplina
in cui vivevano, fosse ordita perché sfogassero la repressione del risentimento
che nutrivano verso i predatori dei loro avi e verso l’oppressione dei loro
padroni bianchi.
Tutt’intorno alla vita spirituale dei negri, e avvolto in un manto di
mistero non facilmente penetrabile, intriso di feticismo, essoterismo,
occultismo, sorgono da questi fenomeni e trovano posto stregoni, sensitivi,
chiaroveggenti, indovini, avvolti nel mistero della magia bianca e nera. Da
tutto questo nacque la mia curiosità.
Questo mondo volevo tradurlo in immagini anche se si mostri con molta
riservatezza e se ne parli sommessamente come volendolo celare al cittadino
moderno, essendo un mondo di loro dominio inteso da loro che però materialmente
ha il suo lato speculativo e qui si apre lo spiraglio dell’accessibilità anche
ai bianchi. Non di rado ai colletti bianchi che accorrono per conoscere il loro
futuro politico, economico, salute, amore e altre predizioni che intendono
strappare al fato.
Personalmente non ho mai creduto e non crederò mai a queste
ciarlatanerie però da un lato non lascia di essere interessante e appetibile
dal punto di vista informativo. Per questo volevo conoscere qualcuno di questi
stregoni anche facendomi passare come…paziente bisognoso delle loro
prestazioni. Ebbi l’opportunità di avvicinarmi ad uno di loro grazie ad un mio
cliente il cui papà era un grosso possidente terriero in una località famosa
come residenza di stregoni che stando a ciò che si dice, è un paesino chiamato “Virongo”.
C’è ne uno in ogni famiglia tanto che vanta il nomignolo di “Pais de los brujos”
(paese degli stregoni); è una località distante dalla capitale Caracas un
centinaio di chilometri, abitata, quasi nella totalità, da negri ed è ovvio
dedurre che queste pratiche sono ereditate dai loro ancestri africani.
Virongo è ubicata nella regione di Barlovento, zona molto calorosa dove
ai tempi della colonia ubicarono gli schiavi, poi usati nella coltivazione di
cacao, banane, papaia e altri frutti tropicali.
Le aziende erano proprietà di signorotti, classe che formava la fascia
sociale danarosa di Cararcas, e le loro aziende erano tanto redditizie da
meritarsi l’attributo di “gran cacao” beneficiando di tali rendite. Con la
raccomandazione del mio cliente partii un giorno e, anche se con me portavo la
macchina fotografica, Julian Gonzalez, questo era il nome del mio cliente, mi
prevenne che non mi sarebbe permesso di fare fotografie, mi disse di tentare
però, anche se sicuramente si sarebbe negato di farsi fotografare. Ero in
cammino, dovevo arrivare e prendere contato con il “Brujo” Josè Luis Blanco,
questo era il suo nome. Giunsi in prossimità del Paese dopo essere transitato
per una strada di terra battuta, bordeggiata da alberi di palma e ai lati,
oltre questi, c’erano piante di cacao e banane che formavano una densa
vegetazione verde intenso.
Era una giornata caldissima, seguivo la mia strada lamentando il mal
funzionamento dell’aria condizionata dell’automobile, perciò sentivo un calore
pesante e molesto. Ad un certo punto vidi un campesino (contadino) montato su
un asinello col macete (coltellaccio tutto fare lungo quasi un metro)
appoggiato fra braccio e avambraccio all’altezza del gomito, come è
consuetudine andare per la gente di campagna di tutto il Venezuela. Approfittai
per chiedergli quanto mancava per arrivare al paese e mi rispose: “Està ahì
mismito” (poco distante). Anche questa è una risposta consueta di questi
informatori occasionali, però non corrisponde mai alla realtà poiché ahì
mismito è ancora lontano molti chilometri. Di fatto viaggiai ancora mezz’ora
prima di vedere le prime case di Virongo. Molte di queste sono di “bajareque”,
vale a dire costruite con pantano misto con paglia tagliata corta, e con questo
pastone si alzavano muri e pareti. Arrivai sulla piazza dove notai due botteghe
e un’osteria tipo saloon. Entrai nell’osteria per avere informazioni sulla residenza
di Josè Luis Blanco. Chiesi una bibita e guardai intorno rendendomi conto del
deterioramento dell’ambiente. Ad un tavolo c’erano tre uomini che giocavano a
domino, un altro era in piedi vicino al bancone che conversava con l’oste, un
uomo grassoccio in canottiera. Chiesi l’indirizzo di Josè Luis e, sia l’uomo
che l’oste, mi guardarono dall’alto in basso con aria interrogante, pensando
forse che fossi uno di quei forestieri che vengono a curiosare nel paese degli
stregoni. Non si sbagliavano, ero proprio uno di quelli, ma alla fine mi
diedero proprio l’indicazione per arrivare alla casa che cercavo. Non mi fu
difficile incontrarla per la bella pianta di bouganville di colore rosso che le
stava davanti e la copriva in buona parte. L’uomo, piuttosto corto di statura,
di pelle morena, stava sulla porta di casa, dietro di lui una donna di mezza età
spingeva la testa in avanti come per sentire meglio ciò che avrei detto. Parve
mi stessero aspettando, come se avessero avuto un segnale telepatico o avesse
funzionato il tam tam dando avviso della mia presenza. Lui mi scrutava con
curiosità e diffidenza allo stesso tempo. Quando gli dissi che mi mandava
Julian Gonzalez sparì dalla sua faccia la tensione accumulata pensando che
fossi un poliziotto in quanto, l’attività che esercitava, era illegale. Però le
forze dell’ordine pubblico erano molto tolleranti. Solo nel caso in cui questi
maghi commettessero frodi che trascendessero certi confini, e avessero causato
un certo scalpore, passavano qualche giorno di reclusione nella jefatura di
polizia (gendarmeria). Il nome di Julian Gonzalez fece colpo poiché il padre
era un grande proprietario terriero della zona quindi, direttamente o
indirettamente, dava lavoro a molta gente, beneficiando l’economia del luogo
così da renderlo il “Don” poderoso di Virongo. Quando stavo per varcare la
soglia della casa mi sentii fuori posto, disorientato, provando un senso di
ripugnanza per questo tipo di ciarlataneria. Visto l’ermetismo col quale
operava Josè, così di primo acchito non avrei ottenuto che un netto rifiuto al
mio proposito di fotografare la funzione, inoltre non c’era nessun altro in
quel momento che servisse da soggetto. Velocemente pensai di dimostrare che ero
lì per essere io il….paziente bisognoso di scongiuro anche se questo esulava
completamente il motivo iniziale dei miei piani.
Inventai il problema iella, male andamento degli affari, del negozio e
tutto questo si rifletteva nell’economia familiare. Creai un’atmosfera
credibile che giustificasse la mia presenza, chiedendo il suo intervento. Nell’esporre
i miei malanni pare sia stato sufficientemente convincente. L’uomo era
rientrato nella normalità dopo lo sguardo interrogante e la diffidenza
iniziale. La casetta di bajareque con pavimento di terra battuta, perciò che mi
era dato vedere, era composta di due stanze e uno sgabuzzino. Una delle due
stanze, quella con la porta di entrata, era la più grande, era un ambiente
povero, pochi mobili di legno, un tavolo e quattro sedie di fattura piuttosto
grossolana; in un angolo trovava posto un altarino sul quale spiccavano vari
moccoli di candele accesi la cui luce tremolante illuminava delle statuette in
gesso di personaggi conosciuti e venerati dalle masse popolari, come il negro
Felipe, il negro Miguel, il dottor Gregorio Hernandez e non mancava la “reina”
Maria Lonza Deità indigena, personaggio mitico, leggendario nella cultura
popolare venezuelana e per lei sola dovrebbe scriversi un capitolo a parte che
scoprirebbe una saga bella e interessante.
Non mancavano neanche immagini cattoliche, cristiane. Tra l’altro
spiccavano il cuore di Gesù, la Vergine Maria e altri santi. Questa mescolanza
di immagini pagane e cristiane è frequente nelle loro manifestazioni di fede e
per usarle in tali funzioni stregoniche.
Sul tavolo addossato ad una parete si notavano un mazzo di frasche,
quattro candele, dei fiammiferi e un vasetto contenente una sostanza granulare
che non mi fu possibile identificare. La donna stava rannicchiata in un angolo
della casa con gli occhietti vispi e attenta a tutto ciò che succedeva intorno.
Poi mi resi conto che era l’assistente di Brujo. L’uomo mi disse di togliermi
la camicia e la canottiera. Si avvicinò all’altarino e accese due moccoli di
candela, sembrava raccogliersi in se stesso, concentrandosi, preparandosi al
rito. Quando si voltò e venne verso di me il suo volto era rilassato, era
scomparsa in lui l’espressione interrogante e scrutatrice del momento in cui
apparvi sulla porta di casa sua. Mi accettò per la raccomandazione di Julian ma
per conto suo, sono certo, che nelle sue conclusioni sul mio riguardo dedusse
di avere davanti uno che cercava l’avventura, più che lo scongiuro a dei
supposti malanni. Era logico che così pensasse. Ero bianco, giovane e inoltre
straniero. Era inconsueto che un soggetto con queste caratteristiche cercasse
il suo intervento. Raccolse il mazzo di frasche, mi si avvicinò e incominciò a
spazzolarmi dalla testa ai piedi girandomi attorno. Mentre mi frascheggiava
gesticolava e mormorava frasi incomprensibili ma entro queste potei distinguere
dei nomi come Javè Babaloo e anche Gesù e Maria. I primi due sono divinità
pagane appartenenti all’esoterismo africano, usate dai “santeros” nel loro
culto indiscreto e superstizioso verso i santi, molto diffuso a Cuba e in altre
isole dei Carabi.
La donna a questo punto della funzione si avvicinò a Josè e gli diede un
grosso sigaro acceso che si mise a fumare soffiandomi il fumo su tutto il
corpo. Poi stese una stuoia sul pavimento ma, prima di farmi stendere, l’uomo
si avvicinò al tavolo e bevve dalla bottiglia qualche sorsata, poi mi si
avvicinò e mi spruzzò in faccia e sul torace ciò che mi parve fosse del ron
(rum) o caňa blanca (un distillato della canna da zucchero di infima qualità).
Il peggio fu quella….sputata in faccia che non mi aspettavo mista all’alito del
fumo che produsse un odore nauseabondo rimanendo inorridito, schifato. La mia
prima reazione fu quella di uscire correndo da quel rancno (casupola) ma
dovetti contenermi, non senza uno sforzo di volontà. Chiusi gli occhi e respirai
profondamente mentre l’uomo mi diceva di stendermi sulla stuoia. Lo feci mentre
la donna metteva al suolo due candele accese ai lati delle caviglie mentre Josè
seguiva spazzolandomi con le frasche borbottando e gesticolando. Dentro quel
buco faceva caldo, molto caldo. L’uomo sudava e operava quasi sempre con gli
occhi chiusi, prendendo posizione ai miei quattro lati. La donna ad un certo
punto accese il contenuto del vasetto e nella stanza si propagò del fumo che
odorava di incenso misto a candela. Alla fine con questo mi sembrò che il rito
volgesse al termine quando l’uomo si avvicinò all’altarino, chinò la testa sul
petto restando qualche minuto in quella posizione , poi ritornò verso di me
dicendomi che la seduta era terminata, che potevo rimettermi la camicia.
Chiesi di lavarmi poiché la spruzzata e il fumo mi si erano appiccicati
alla pelle e ciò mi causava la nausea. La donna mi indicò un’uscita opposta all’entrata
che dava ad un patio (cortiletto) dove trovai un lavello di cemento e a lato un
secchio d’acqua. Mi lavai, pagai i 20 bolivares dell’onorario, equivalenti a
quel tempo ad una giornata di lavoro di un operaio qualificato, al cambio in
lire italiane a quarantamila lire. Josè Luis Blanco mi disse che da quel
momento le cose sarebbero migliorate. Certo che miglioreranno, fuori di li
riprendendo il mio cammino tutto sarà rose e fiori dopo il broglio in cui mi
ero cacciato e che avevo dovuto sopportare. Prima di uscire per riprendere il
mio ritorno a Caracas gli chiesi se avessi potuto tornare con un cliente…paziente
e fare delle fotografie di tutta la funzione. Mi guardò sorpreso della proposta
che gli feci e si negò decisamente anche offrendogli del denaro extra in
compenso. Aveva paura della polizia, non tanto per i tre o quattro giorni di
reclusione nella “jefatura” per esercitare un’attività illegale ma dell’estrorsione
da parte di qualche agente che poi non sarebbe finita mai più.
Nella rete “de los Brujos”, di tanto in tanto, ci casca qualche donnetta
che, poco a poco, viene ripulita dei suoi risparmi restando con il borsellino
vuoto. Da questo la vigilanza e il controllo di questa gente da parte della
polizia locale. Solo quando le frodi trascendono i confini locali possono dar
luogo a castighi pesanti. Normalmente nel campo di queste macchinazioni
esoteriche c’è una grande tolleranza e le ragioni di ciò sono molte. Meglio
lasciar correre le acque e non intorbidirle!!!
Alla fine fallirono tutte le mie proposte, anche la promessa di non
pubblicarle nel Venezuela. Non mi rimase che salutare Josè Luis Blanco, montare
in macchina e riprendere la via del ritorno a Caracas. Mentre stavo lasciando
indietro le ultime case di Virongo dovetti frenare bruscamente per lasciar
attraversare la strada ad un grosso serpente boa che lentamente passava dall’altro
lato. Sapevo che questa, oltre ad essere una zona di stregoni, è anche una zona
di serpenti ma non pensavo di vederne uno attraversarmi la strada. Era un
animale grande non meno di tre o quattro metri e mi è sembrato non finisse mai
di passare. Ero già un po’ alterato alla fine della funzione e questo incontro
accentuò la tensione che a poco a poco però svanì avvicinandomi a casa mia.
Durante il percorso pensai all’avventura vissuta restandomi qualcosa di
positivo: aver tentato di documentare qualcosa di quel mondo della magia nera,
dell’occultismo che tutti abbiamo una certa avidità di conoscere. Associai questo fatto coincidente ad un
reportage che realizzammo io e il padrone dell’agenzia di Milano dove lavoravo,
a Como e Bormio, che fu pubblicato con il titolo “Le vie del tabacco” e
lavorammo nella stessa atmosfera di riservatezza, segretezza e mistero. Si
trattava del contrabbando, principalmente di sigarette, e altre cose dalla
Svizzera. Anche qui con formale promessa di non fotografare volti e altri
indizi che potessero compromettere luoghi e persone involucrati in questo
lavoro illegale che allora si svolgeva in ogni zona di confine.
Per concludere devo manifestare la mia sorpresa scoprendo, al mio
rientro in Italia, ed è anche pubblicamente nota, la presenza di una grande
quantità di maghi anche qui, che operano con le stesse funzioni di Josè Luis
Blanco e forse conoscono anche loro la magia nera, oltre a quella bianca, per
raggirare il prossimo credulone che capita loro nella rete.
19 de noviembre de 2011
C’E’ POSTA PER ME?
Ettore, col suo
peculiare modo di camminare, avanzava sulla scorciatoia, stradicciola che
conduceva alla nostra borgata, muovendosi con un’andatura caratteristica che
lasciava indovinare che avesse dei calli ai piedi. Era il nostro postino. Era
un omone grande e bonaccione, prossimo ad essere pensionato. Fu il primo
portalettere che conobbi da bambino e ancora oggi, a distanza di tempo, la sua
immagine col chepì consunto e il borsone di cuoio contenente la posta, nel mio
ricordo, mi appare ben chiara e dettagliata.
All’ora consueta che arrivava alla nostra borgata si manifestava,
tacitamente, fra le gente, la psicosi, la smania dell’attesa del postino, e
questa attitudine si spiegava avendo in casa un familiare emigrato che poteva
aver mandato una lettera da terre lontane. La posta era quasi l’unico mezzo di
comunicazione a distanza, anche se già esisteva il telefono, però questo era un
lusso che non potevamo permetterci, e tanto meno di tenerlo in casa. Quindi
solo il servizio postale permetteva una comunicazione normale con i nostri cari
lontani. Chi non faceva mistero della sua ansietà per ricevere posta era la
signora Amalia che immancabilmente, seduta su un ripiano al margine della
strada, aspettava il postino che da un momento all’altro poteva apparire in
fondo alla stradetta e non lo lasciava avvicinarsi sufficientemente,
chiedendogli ad alta voce se avesse posta per lei.
Amalia era una giovane sposa con il marito emigrato in Francia e, da
quando era partito, già da qualche mese, ancora di lui non era giunta la prima
lettera che lei aspettava trepidamente giorno dopo giorno, e la sua smania
cresceva con il passar del tempo, accentuandosi dopo che la lingualunga, vicina
di casa, le aveva scaldato la testa insinuandole che molti emigrati italiani
erano caduti nella rete dello charme delle donne francesi. Per sua consolazione
la lettera tanto attesa un giorno arrivò, e Amalia corse a sventolarla in
faccia alla vicina pettegola, così per chiuderle il becco.
Ettore, con o senza posta per noi, arrivava sempre a casa nostra avendo
qui un appuntamento con un buon bicchiere di vino che mia madre gli serviva sul
tavolo in cucina e, mentre lo sorseggiava, conversava con la mamma e io
sbirciavo il contenuto del suo borsone che aveva posto su una sedia. Guardavo
superficialmente nei tre scomparti della borsa le lettere di colori diversi
sapendo, per sentito dire, che quelle rosa portavano messaggi d’amore, le color
paglia contenevano corrispondenza di enti ufficiali o commerciali, e ognuna con
messaggi e argomenti diversi. Notizie importanti o banali, scritti amorosi,
affari, saluti, alcune lettere portavano gioia altre tristezza, certe
esprimevano frasi appassionate dettate da sentimenti cha a tu per tu non
troverebbero modo facile di essere dette così dettagliate.
Dentro quelle buste l’immaginazione suggeriva ci fosse tutto un mondo di
aspetti diversi. Alcune erano scritte con bella calligrafia lasciando supporre
che anche il messaggio all’interno venisse da gente colta, espresso in forma
corretta fedele ai canoni letterari, e non di rado con una certa ampollosità,
stile molto usato in tempi passati nelle relazioni epistolari.
Altre evidenziavano la loro provenienza da persone di poca cultura, con
l’indirizzo iniziato diritto che andava poi torcendosi verso il basso dovendo
girare la busta per tentare di leggerlo, cosa ardua per il postino che doveva
recapitare la missiva.
Non erano poche quelle che bisognava interpretarle più che leggerle,
lasciando immaginare che solo il destinatario, impratichito della calligrafia,
poteva districare il testo dell’interno. Questo era conseguenza di chi aveva
frequentato, però non era passato, dalla seconda o terza elementare, perché in
casa erano più necessarie le loro braccia che una mente colta. Comunque,
prescindendo dalla calligrafia, ricevere una lettera sempre motiva certe
vibrazioni che si trasformano in emozioni diverse leggendola. Emozioni dolci,
tenere se chi ti scrive è una persona amata, indifferenza o poco interesse per
i messaggi pubblicitari, con una smorfia se includono fatture per il pagamento
agli enti che ci forniscono i vari servizi per la casa, e lo stesso per il
pagamento delle tasse. Così sempre quando ci arriva una lettera per le mani.
Seguendo con i valori della parola scritta, alla “penna” tocca il privilegio
della scrittura eseguita manualmente anche se attualmente in disuso, in buona
parte marginata da mezzi e tecnologie moderne usata tutt’al più per redigere
minute annotazioni o fogli marginali di relativa importanza, e anche i famosi
manoscritti notarili già non sono tali a meno che, in taluni casi, non sia
necessaria l’autenticità grafologica.
Nulla potrà togliere alla penna di essere stata, e di esserlo per
sempre, la regina della scrittura a mano, partendo dalla piuma d’oca e sommando
tutte le invenzioni e forme di scrittura che a questa sono succedute, sarà
sempre la penna e la scrittura a mano a trasmettere sensazioni, emozioni, e
riflettere lineamenti e caratteristiche della personalità dello scrivente.
Inoltre manifesta intimità, calore, confidenza più che altri mezzi di
comunicazione a distanza, che risultano più freddi e impersonali, anche se più
pratici e immediati. Retrocedendo di un paio di generazioni è doveroso
ricordare quel pennino d’acciaio montato sull’asticella che serviva da impugnatura.
Pennino con cui, insicuri, abbiamo tracciato le prime aste e man mano abbiamo
preso confidenza riempiendo pagine intere con una sola parola per impratichirci
nella scrittura. Il pennino aveva il suo compagno inseparabile, il calamaio, e
quando per intingere l’inchiostro lo si affondava più del necessario, lasciava
cadere una goccia che formava una bella macchia sul foglio bianco, la pagina già
scritta. Erano guai anche quando il famoso pennino si conficcava nella carta e
la macchia prendeva la forma di uno scoppio di granata e ciò diminuiva la
qualificazione che il maestro marcava al margine della pagina.
Oggi i nostri figli o nipoti usano la penna a sfera e questi incidenti
non succedono più.
Quanti pensieri si possono far scorrere sulla punta della penna, forse
più di quanti se ne possano esternare con la parola, e lo scritto resta
indelebile segnato sul foglio, mentre la parola può scivolare nell’aria e in
buona parte disperdersi o dimenticarsi.
La comunicazione scritta destinata ad andare lontano è la posta,
incaricata di recapitarla, e oltre alla corrispondenza, alla lettera, ci porta
pacchi, denaro e molte altre cose ancora. Piacevole era il momento del ricevere
l’assicurata con il vaglia incluso dal familiare lontano che provvedeva al
mantenimento della famiglia fino all’arrivo del prossimo destinato allo stesso
fine. Quanta gioia pervadeva l’emigrante quando in terre straniere riceveva una
lettera dei suoi cari che, oltre alle notizie personali, includeva quel filo
spirituale che lo teneva attaccato alla grande patria e al luogo natio
mantenendo placato anche il morso della nostalgia. E quando c’erano di mezzo le
passioni amorose quando arrivava la lettera attesa quanta felicità e in caso
contrario se non c’era posta per lui o lei, quanta ansietà pativa l’innamorato.
Ma il valore incomparabile della posta era quando la lettera poteva giungere
nella mani del soldato sul fronte di guerra, ricevendola con un nodo alla gola
tra i fischi delle pallottole e il rombo del cannone. Anche in questo caso un
tenue filo congiungeva ricordi e affetti con l’emozione raddoppiata dalla
precaria certezza di poter uscire con vita dal conflitto che incombeva con
tanti pericoli minacciosi sulla sopravvivenza dei combattenti. Così il soldato
seduto su un sasso o accovacciato nella trincea leggeva la lettera preso dal
magone guardando la fotografia della fidanzata o della moglie con il figliolo
nato dopo la sua partenza che non aveva ancora potuto tenere tra le braccia.
Benché l’idea di far nascere questo racconto era di esaltare solo il
piacere di ricevere posta, lettere, notizie, è impossibile dissociare il
servizio postale, veicolo che ci rimette nelle nostre mani, al nostro
domicilio, i messaggi a noi indirizzati; perciò un po’ di storia delle poste si
intreccia col racconto ed è un atto di giustizia non tralasciare di citare
questo imprescindibile servizio sociale. Ogni giorno per vie e viottoli di ogni
dove vediamo e incrociamo i postini nel loro lavoro, recapitando lettere ai
destinatari. Vanno a piedi o motorizzati, facilmente individuabili con le loro
vistose uniformi giallo-blu prestando il servizio alla comunità.
Questi incontri fanno risalire il pensiero agli esordi, agli inizi del
servizio postale quando fu creato cento cinquant’anni fa contemporaneamente alla
nascita dell’unità d’Italia nel 1861.
Una certa forma di comunicazione epistolare la si attribuisce molto
prima ai romani, alle alte sfere imperiali e militari, mobilizzandosi, gli
addetti al servizio, a piedi o a cavallo con i rotoli di pergamena.
Poi via via passando il tempo, attraverso i secoli, come tutte le cose,
la comunicazione a distanza evolse arrivando al tempo attuale, ai giorni
nostri, operando con tecnologie e mezzi moderni.
Si sa che l’uomo da quando esiste sulla terra ha sentito la necessità,
il bisogno di comunicare a distanza. Prima si sarà fatto capire a gridi, poi
scoprendo il fuoco, con segnali di fumo, o con il tam tam usando i tamburi. In
qualche parte del mondo esistono ancora popolazioni primitive, non involucrate
nella spinta del progresso, che usano tali modi di comunicazione e resteranno
così fin quando non arriverà tra loro un malandro “vucomprà” a barattare
telefonini per pelli di serpenti e di coccodrilli.
Per far giungere la posta ai destinatari furono usati molti mezzi. Agli
inizi del servizio fu portata a piedi, a cavallo, in località di montagna, con
la slitta, gli sci o a dorso di un mulo. Poi arrivò il barroccino la diligenza
con ai lati delle porte, lo scudo delle “regie poste” e i corrieri di questa
dovevano viaggiare armati per difendersi qualora alcune strade fossero
infestate da briganti e malfattori. Seguirono il trasporto ferroviario, il
piroscafo e l’aereo. Già nell’attualità altri mezzi si aggiunsero alla
comunicazione a distanza tra le quali l’ultima arrivata è “l’e. mail”, posta
elettronica a mezzo computer, dando questo sistema la massima capillarità al
servizio.
La “posta” deve il suo nome al luogo dove la diligenza si fermava per il
cambio dei cavalli e il ristoro dei passeggeri detta “stazione di posta” e tali
fermate erano distanti circa venti chilometri una dall’altra. E’ da notare che
con l’evoluzione dei servizi anche i postini che fin dai primi tempi usarono
uniformi, si modernizzarono anche queste passando per diverse fogge sempre
molto eleganti fino alle attuali fosforescenti e molto appariscenti.
Dopo aver risaltato più che latro il lato pratico e utilitario della
posta merita un riferimento anche una faccetta dal carattere sentimentale che
fa risaltare la cartolina postale con immagini intinte nell’idealismo romantico
della belle epoque, rappresentando principalmente l’amore in tutte le sue
espressioni permesse dalla decenza
e dalla morale. Furoreggiarono fino alla decade degli anno trenta del secolo
scorso, svanirono, poi scomparsero, con la generazione dei nostri genitori non
solo vestivano un’aureola romantica ma era corrente che il borsone del postino
emanasse un profumino di coty, chanel o semplicemente di lavanda o acqua di
rose dovuto a lettere amorose, a volte contenenti fiori dissecati, ciocche di
capelli, quadrifogli o altre cosette simboleggiando o relazionando con l’amore.
E’ possibile che persone cui piace conservare la corrispondenza di qualche
vecchio familiare, rovistando qualche plico ingiallito dal tempo, trovino delle
immagini, fogli e buste che racconteranno la storia completa di tutta un’epoca
confermata da scritti sbiaditi e francobolli raffiguranti personaggi anche loro
passati alla storia, cimeli giunti per posta e forse recapitati da Ettore
quando era un giovanotto agli inizi della sua carriera.
18 de noviembre de 2011
DIVENTARE NONNO E CONTASTORIE
Sapevo che da un
momento all’altro dovevo ricevere quella chiamata e stavo in attesa che il
telefono squillasse. Alla fine…….il driiin si fece sentire. Sollevai la
cornetta e la voce di mia moglie, presa dall’emozione, mi annunciò: “Sei
diventato nonno di una bella bambina!!!”Nonno…..?!Sul momento a sentirmi
attribuire l’appellativo di nonno mi sentii un po’ disorientato pur essendo
conscio che quella comunicazione doveva arrivare; nonostante mi colse
impreparato ad accettare la realtà di essere, da quel momento, entrato nel
rango dei nonni. Nella mia intimità, tacitamente, associavo il personaggio col
sinonimo di vecchiaia, ma mi ripresi subito, consolandomi deducendo che a
sessant’anni, età che avevo in quel momento, non mi sentivo, e resistevo a
considerarmi vecchio, tuttal’più attempato, maturo, ma non proprio vecchio.
Con queste considerazioni mulinandomi nella mente, mi rasserenai e mi
diressi verso la clinica a felicitarmi con la nuora, a farle omaggio di un
mazzo di fiori, e a conoscere la neonata.
La bambina stava nella culla in un padiglione separato dai visitatori da
una vetrata. Vedendo quella creatura che pareva mi stesse guardando fisso, fui
preso da un’ondata di tenerezza e nello stesso tempo orgoglioso della mia recente
condizione di nonno scomparendo ogni reticenza verso questo nuovo ruolo che
venivo a rappresentare.
Al mio fianco, guardando la nuova arrivata, c’era lo zio, fratello di
mia nuora. Poiché la bambina stava guardando, così ci parve, nella nostra direzione,
ci contendevamo gelosamente quello sguardo, come fosse indirizzato ad ognuno di
noi in particolare. Il buon senso prevalse, e ci accordammo, deducendo che con
una sola ora di vita non poteva distinguere ne nonni ne zii. Chissà cos’era che
attirava l’attenzione della creatura in quel luogo di questo mondo dove era
appena arrivata. Con la nascita della nipotina nacque un nuovo motivo di
stimolo che destava nuovi sentimenti di affetto e tenerezza più sereni e
tranquilli di quelli provati alla nascita dei propri figli, essendo allora
molto giovane, tutte le espressioni affettive erano più focose e appassionate.
Con il ruolo di nonno non si acquisiscono solo nuove manifestazioni affettive
ma anche qualche prestazione o collaborazione famigliare che permette a giovani
genitori di seguire le proprie occupazioni professionali. Ciò richiama dover
rinnovare le pratiche usate nel trattare i figli neonati, così ti trovi, di
tanto in tanto, con i nipotini in braccio che grati del trastullo ti
ricompensano con un regalino tiepido e umido sulla manica della camicia e sui
pantaloni. Più grandicelli all’ora di coricarsi mi chiedevano di raccontargli
una favola. Questo era un momeneto di pace e tenerezza, era il momento che si
ammansivano dopo una giornata di birichinate e di irrequietezza come solo i
bambini la vivono, tenendoci sempre attenti e vigilanti. Perciò questo era anche
il momento che preannunciava il riposo per loro e per noi. Le poche favole che
sapevo erano quelle che più o meno tutti sanno: Pinocchio, Biancaneve,
Cenerentola e qualche altra. Il mio repertorio era limitato, e spesso mi
sentivo dire: “Ma nonno quella me l’hai raccontata ieri sera!!!” E non avendo
altra scelta, poiché tutte le sapevano, molte per averle ascoltate e viste alla
televisione, decisi di inventare storie ricorrendo all’immaginazione e alla
fantasia. Così è nata quella dell’uomo forzuto che con uno starnuto sradicava
gli alberi della foresta…altra, dei due fratellini che si persero nel bosco e
dovettero passare la notte nella cavità di un vecchio e grosso albero
intimoriti udendo tanti strani e paurosi rumori che di notte si sentono in quei
luoghi tenebrosi: l’ululato del lupo, il lugubre canto della civetta, il
grugnire dell’orso che passò vicino a loro con i suoi passi striscianti causando
tra le foglie secche del suolo un scioo, scioo che li fece rabbrividire. Altra,
il matrimonio della pulce col pidocchio che come padrino scelsero il topo e per
madrina la gatta e, al finale della festa, tutti ebbri per la grappa e il vino
la madrina si mangiò il padrino. Il racconto non lo lasciavano scorrere e
seguire continuo ma spesso lo interrompevano con domande per mettere in
imbarazzo la mente più sveglia per dar loro delle risposte credibili e
coerenti. Oggi che tutti i nipoti sono già adulti mi ricordano certi passaggi
di quei racconti che più li impressionarono come: l’uomo forzuto che dovette
lottare con un mago di grandi poteri che si era invaghito della sua innamorata….il
scioo scioo dei passi dell’orso. Allora nella foga di inventare situazioni e
personaggi, non mi rendevo conto che drammatizzavo un po’ troppo, tanto che
invece di predisporli al sonno, succedeva il contrario e questo tardava ad
arrivare. Quando mi rendevo conto che la loro mente infantile non era ancora
avvezza alle forti impressioni e apparivano turbati, ricorrevo alla fata buona
con poteri illimitati che castigava i cattivi e premiava i buoni o a storie di
principi e principesse di regni fantastici, soavizzando così le emozioni. Di
tanto in tanto in queste sedute fiabesche intenzionate a conciliare il sonno,
succedeva che questo mi coglieva prima che loro e al mattino seguente si
burlavano e si vantavano di aver addormentato il nonno. Queste sono le cose
graziose che succedono assieme ad altre che non lo sono. Quando c’è un nonno in
famiglia non si può quantificare il valore della sua presenza, la carica
affettiva che trasmette, e se le sue condizioni di salute sono ancora buone,
tanto da rendersi utile, lo farà con la stessa responsabilità dei genitori nel
farsi carico dei nipoti. Mi riferisco al nonno essendo questa la mia
condizione. Ovviamente la nonna non è di meno nel dare le sue prestazioni ai
nipotini e come donna lo fa con qualche caratteristica diversa, propria della
sua condizione. Unendo questi due personaggi in seno alla famiglia, notiamo che
il compromesso ha un solo fine, amare e dedicarsi incondizionatamente ai
nipoti. Come accennai non tutto, e sempre, i rapporti sono grazia e miele, alle
volte si creano situazioni che comportano qualche screzio, dovuto come è
logico, a differenze createsi più che altro dalle diverse posizioni
generazionali. I nonni non possono attualizzarsi in molte cose e i nipoti no ci
pensano due volte per escludere la loro partecipazione nei loro problemi o
altre circostanze dove potrebbero apportare un sano e savio consiglio. Certe
situazioni conflittuali si danno con più frequenza nella scalata dall’adolescenza
all’età maggiore. Epoca che provoca i loro atteggiamenti smodati, anche se
privi di malintenzione, dettati da quella sfacciata spontaneità e sincerità
radicata nei loro impulsi giovanili. I nonni incassano senza dare alcun segno
di contrarietà, anzi sul loro volto si nota un’espressione di dolce
compatimento sperando nel momento di poter dimostrare che nel loro bagaglio di
esperienze c’è ancora molto di valido per orientare i nipoti con valori che li
favoriscano verso una convivenza serena e armoniosa in seno alla famiglia.
Una dimostrazione di mortificante comportamento nei miei riguardi l’ho
avuta un giorno dal mio nipotino di una decina d’anni, corta età, però già
esperto nel destreggiarsi con il computer. Mi avvicinai mentre stava operando
con l’apparato e gli dissi di lasciarmi provare a cercare dei dati, in sua
presenza e direzione; mi rispose con aria risaputa: “No nonno, tu non capisci e
non sai niente di queste cose…..”
Tale risposta non lasciò risentimento alcuno ma solo un pungente
dissapore. Come ricompensa rasserenante, mentre sto scrivendo queste righe,
driiin….suona il telefono….è la “bambina” che mi fece nonno trent’anni fa. Mi
chiama dall’Argentina dove nell’università di Buenos Aires è impegnata in un
master, dopo essersi laureata in sociologia, ed è proprio lei la nipote, quella
che più emozionavano i miei racconti che oggi mi sta rievocando…il scioo scioo
dei passi dell’orso sulle foglie secche sul suolo del bosco. Sembra ieri, un
soffio di tempo, invece sono passati già trent’anni. In questo periodo molti
cambi sono avvenuti nel nostro vivere quotidiano e così anche nei rapporti con
i nostri giovani. In ogni epoca nella convivenza si è verificato l’inevitabile
conflitto generazionale ma fin dal secolo scorso questo fenomeno si è
accentuato e accelerato dovuto al ritmo evolutivo progressista con il quale
questo succede, riflettendosi in ogni ambito del nostro vivere. Quindi i nostri
giovani devono seguire tale ritmo loro prerogativa che impone un nuovo modo di
vivere corrispondendo a nuove maniere di manifestarlo e questa dinamica
modifica il comportamento. Considerando l’età che ha compromesso le nostre
facoltà, è difficile seguire ed intendere gli avvenimenti che si susseguono
attorno a noi imponendoci nuovi valori e cambiamenti nella condotta umana,
augurandoci che questi non raffreddino gli affetti, il rispetto, la
considerazione. Ci rendiamo conto che i nostri giovani vivono il mondo attuale
complesso e mutevole, che obbedisce a canoni e principi concettuali diversi da
quelli che hanno retto la nostra esistenza. Hanno maggiori disponibilità
economiche e benessere, un punto a favore rispetto a non molto tempo fa quando
penurie e ristrettezze opprimevano la maggior parte della popolazione rendendo
difficile ogni prospettiva.
In queste linee ho tentato di dare una fisionomia alla mia immagine di
nonno, restando inteso che tutte le considerazioni e riflessioni sono personali
non intenzionate a generalizzare. Comunque stando alle evidenze, voglio
aggiungere che fra noi anziani non manca chi pretende di suggerire, e alle
volte imporre, ai giovani di questo tempo ideologie e teorie già obsolete,
valendosi dell’autorità morale che può dare l’età, al posto di soffermarci a
comprendere la realtà del mondo attuale che determina il comportamento dei
nostri giovani. Con un atteggiamento meno autoritario eviterebbero conflitti e
ribellioni in seno al nucleo familiare.
Al fine con una buona comunicazione intrinseca, e buona volontà da ambo
le parti, sono convinto che si possa ancora trasmettere loro certi valori
frutto e patrimonio delle nostre esperienze, risulatandone sicuramente una
convivenza più armonica e serena, cosa che tutti desideriamo nei rapporto con i
nostri giovani.
17 de noviembre de 2011
IL CAVALLINO DI CARTAPESTA
Mia madre, di tanto in tanto, mi metteva il vestitino della festa per
andare al paese vicino, a piedi, a fare visita ad una vecchia zia. Zia che io
cordialmente detestavo per il fatto che lei cuciva, e mi faceva pantaloncini
con una sola tasca, la destra, poiché sosteneva che i bambini non dovevano
tenere le mani in tasca. Ancora lei, diceva, per evitare le brutte abitudini,
quindi bastava una tasca sola, quella per metterci il fazzoletto. Io ne avrei
volute non una, ma quattro, di tasche. Avevo tante cose da metterci dentro…..palline
di vetro, una scatoletta con un povero grillo per dimostrare agli amici che non
avevo paura a manipolare quell'insetto, sassolini bianchi e neri, la fionda, e
chissà cosa mai avrei trovato ancora d’importante da infilare in quelle tasche.
Però non fu caso che me ne facesse un’altra così che mi sentii per molti anni
come un mutilato di qualcosa di importante. Da lì il mio risentimento. Un
giorno, dopo la visita alla zia, sulla via del ritorno, prima di uscire dal
paese, c’era un negozietto che dava sulla strada. In quel punto mia madre
incontrò una signora, e mentre stavano conversando, senza un argomento preciso
parlando, parlando e parlando, come fanno spesso le donne, io mi avvicinai alla
umile vetrina e tra le diverse cose di poca importanza esposte spiccava un
cavallino di cartapesta montato su una tavoletta di legno con quattro rotelline
e un gancetto per attaccarci una cordicina. Sul cavallino si accentrò tutto il
mio interesse e la mia fantasia infantile cavalcavo con lui per valli, campi e
pianure infinite raccogliendo prodezze lungo il cammino. Stavo montando il mio
Pegaso e cieli, mari e montagne non erano ostacolo alcuno per il mio fantastico
volo. Mi sentivo libero e felice. Nel momento che stavo galoppando sul mio
cavallino e vivendo le mie avventure, la voce di mia madre, che mi invitava a
proseguire, mi distolse dal mio sogno. Con l’espressione supplicante le dissi
di comprarmelo il cavallino, le dissi che costava poco, solo una lira, mi disse
che non poteva, che non aveva la lira. Non capivo, non conoscevo allora il
perché della mancanza di quella modica moneta nel borsellino di mia madre. Solo
molto tempo dopo conobbi la realtà del perché non c’era in quel momento tale
disponibilità. Riprendendo il cammino verso casa le mie lacrime lasciavano il
loro segno, al mio passaggio, sulla strada polverosa. Con l’immagine fissa
nella mia mente, e nel mio cuore, di quel cavallino dentro la vetrina, e io con
il naso schiacciato sul vetro, con infantile golosità e l’espressione di
rinuncia del bambino povero di fronte al giocattolo caro.
16 de noviembre de 2011
IL FANTASMA TIRASASSI
“Giacomino vuoi
dirmi finalmente ciò che ti succede da un po’ di tempo a questa parte, cosa che
ti si vede in faccia e non puoi più nascondere?” Con queste parole si rivolse a
lui la madre, essendosi resa conto del cambio di suo figlio nel comportamento e
nell’umore che non erano gli stessi del suo essere abituale. Era scontroso, di
malumore e non si alimentava come di solito soleva fare, sereno e con buon
appetito. La madre indagava il motivo di tale cambio in suo figlio con il modo amoroso
che solo le mamme sanno fare in certi momenti con i figli. “Hai problemi sul
lavoro, hai litigato con la Nina, la fidanzata, che cos’hai?” insisteva la
madre. “Niente mamma, non succede niente né sul lavoro né con la Nina”. “Allora
cosa passa in questi ultimi tempi nella tua vita che non ti si riconosce più
nel tuo modo di fare, nel tuo comportamento. Ti senti male? Vuoi farti vedere
da un medico?” “No! No! Non succede nulla, passerà” e con ciò usciva di casa
lasciando senza chiarire quel suo comportamento anomalo. Aveva perso la sua
baldanza, era pallido e dimagrito e ciò era motivo di preoccupazione per i suoi
familiari. Giacomino, giovane venticinquenne, con la Nina faceva piani per
sposarsi in breve tempo. Anche lei si era resa conto del deterioro fisico del
fidanzato, del resto non aveva nulla da lamentare, il buon comportamento verso
di lei era costante. La sera rientrato a casa dal lavoro si lavava, si metteva
indumenti puliti, cenava e poi andava dalla fidanzata. Essendo corto il
tragitto per raggiungere la casa di Nina quasi sempre calzava delle pantofole
piane, così si sentiva più comodo che non con le scarpe. Percorreva la distanza
su una strada inghiaiata e ritornava a casa già tardi, a notte fonda, nel
silenzio totale predominante nelle notti dei paesi di campagna.
In questo tratto di strada erano sorti tutti i mali che Giacomino stava
soffrendo. Sentiva, in quel tragitto, che qualcuno gli tirava sassi sulla
schiena ma non vedeva ne sentiva la presenza di nessuno vicino a lui per
spiegarsi il fenomeno. Invaso dalla paura si lasciò andare pensando a qualcosa
di soprannaturale; a un fantasma.
Non trovava altra spiegazione e, più ci pensava, più scivolava in uno stato
emozionale dal quale non riusciva a trovare una spiegazione, un’uscita razionale;
inoltre il suo orgoglio non gli
permetteva di confessare ciò che gli stava succedendo che a poco a poco
lo portava verso il panico. Gli effetti di questo stato d’animo non poteva
nasconderli, dissimularlo, e dava luogo che i familiari pensassero che il suo
equilibrio mentale potesse soccombere, e decisero per conto loro di scoprire la
causa che affliggeva Giacomino e causava malessere e preoccupazione a tutti
loro. Decisero di pedinare, con discrezione, i suoi passi e investigare i suoi
contatti personali con amici, parenti e conoscenti. Sul posto di lavoro, nel
calzaturificio, tutto si svolgeva con normalità, con le sue conoscenze e
amicizie non c’erano screzi, cosicché il compito che si erano proposti non ebbe
esito e si concluse negativamente. La soluzione si presentò nel modo più strano
e impensabile. Ogni sera Giacomino andava dalla fidanzata e il fratello
maggiore Gigi volle, di nascosto, senza far notare la sua presenza, seguirlo e
avvicinarsi, per capire se tra i due esistesse veramente buona armonia. Gli
bastò per capire che le cose andavano bene e, stando a discreta distanza,
vedere che Nina, aprendogli la porta, gli si avvicinò affettuosamente dandogli
il bacio di benarrivato.
Ritornò allo stesso posto all’ora che Giacomino faceva ritorno a casa e,
favorito da un chiaro di luna molto opportuno, vide il fratello accompagnato
dalla ragazza e, al momento del commiato, si baciarono come ci si può aspettare
in questa circostanza. Quindi tutto normale. Seguì il fratello nel tratto di
strada che lo separava dalla casa, lo seguì sul prato che costeggiava la strada
a prudente distanza, affinché non si accorgesse della sua presenza. Giacomino
uscì dal cortile dell’amata e si incamminò lungo la strada di ghiaia
circospetto e a passi lenti, poi prese a camminare con andatura normale. Il
fratello seguendolo lo guardava, se nonché ad un tratto Giacomino si fermò, si
girò, si guardò i talloni e scoppiò in uno scroscio di risa fragoroso e
sostenuto. Gigi fu preso di soprassalto da quelle risa e pensò che davvero
fosse diventato matto e che la pazzia si fosse dichiarata in quel momento.
Mentre Giacomino si sganasciava dalle risa sfogandosi così dello stato ansioso,
dall’oppressione che sopportava da un tempo a questa parte, si sorprese della
presenza del fratello ma, nello stesso tempo, fu contento di potergli svelare
il mistero dei sassi che tutte le sere gli battevano sulla schiena tornando a
casa dopo la consueta visita a Nina e che fino ad ora non era riuscito a
chiarire tale mistero, tanto d’averlo indotto a pensare che fosse opera di un’anima
vagante, di un fantasma, e per quanto si tormentasse la mente non trovava
spiegazione al fenomeno che aveva minato la sua salute e i buoni rapporti
con i suoi cari. Il suo silenzio e
il non voler parlare con la sua gente si doveva a cosa avrebbero pensato se
avesse detto loro che un fantasma gli tirava sassi nella schiena….Avrebbero
riso e pensato che qualcosa succedeva nella sua mente, anche se a quei tempi la
gente credeva in fantasmi e apparizioni più che nei tempi attuali. Ah! Però
quella sera aveva scoperto e si era svelato il mistero dei sassi. Era veramente
ridicolo e lui rideva al fine avendo scoperto che i sassi erano lanciati dalle
sue stesse pantofole!!! Ad ogni passo qualche sassolino si adagiava sullo
spazio che restava tra il tallone e la fine della pantofola, e al dare il
passo, questi venivano catapultati sulla sua schiena.
Giacomino rientrò nella normalità dopo l’avventura finalmente
conclusasi.
Questa storia è vera, successe a principio del secolo scorso, quando le
notti, ripeto, erano popolate di fantasmi, streghe e apparizioni frutto di una
fantasia malata.
L’esperienza di Giacomino, che dovuto alla sua attitudine, si fece
dramma per lui e i suoi cari, fu causa sia dei tempi che della debolezza dello
spirito.
Da questo caso si può trarre un insegnamento dal quale deriva un
ragionamento. Quando ci si trova assillati da un frangente, un’ossessione che
la nostra mente non riesce a risolvere, al contrario più ci pensi e più
sprofondi nel problema. Dovremmo sforzarci ed affrontare la paura, le
inibizioni, i complessi che ci impediscono di comunicare, di rivolgerci a
persone che stimiamo e potrebbero darci un aiuto, un consiglio per risolvere il
nostro conflitto. Il concorso di più menti, più idee, portano alla soluzione
del problema.
15 de noviembre de 2011
IL MARCO POLO DI PINCAN
La conseguence de crisi finanziarie dal 1929 ha obleat la me
famêe a cambiâ ciase e pais. Di San Pieri di Ruvigne i sin mudas a Pincan al
Tiliment. La neste gnove residence a ere une da les tre ciases poiades su le
cueste de culine dal cisciel. Le neste famêe a ere formade di tre persones, pal
moment, il rest al ere vie pal mont. Che pui visine a no a ere une famêe
numerose e che ate a ere composte di cinc persones tra les quales a l’ere un
veciu cal veve nom Filip, Filip Cruciat, e a mi, frut di siet ains, chest’om a
mi causave une vore di sogezion. Al ere un om alt vistit simpri di scur e quant’che
ogni tant al iscive di ciase al usave une mantelline nere boutade miege par
davour de schene e un ciapiel neri, cusi che a i restavin scuviers dome i voi
tra il bavar e l’ale dal ciapiel. Voi gris celesc di un sguardo viv e sever cal
bastave par definì la so personalitat. A nol leve mai lontan de so ciase, al
rivave fin sunti une place visine, a si fermave cialant les montagnes davour di
Glemone, ma i soi sicur che il so penseir al leve une vore pui lontan, forsi in
Americhe, Germanie, France, Romanie, Angherie, Rusie dulà che al lavorat di
scarpelin, e pe so bravure al faseve il capomastro su la Transiberiane
costruint puins in piere e ates operes di gran impegno, e par sei stat simpri
un “trottamondo” lu clamavin il “Marco Polo di Pincan”.
Quant che io i lu hai conosut al ere veciu e soffrent di un
brut mal che lu ha ciolt di chest mont poc timp dopo. Une anedote ca lu
riguarde a è, che une sere, me mari a mi ha dite va a ciase di Filip e disi a
Argie, la malarie, che ti dei un in di ai, ca mi mancie par cuncia el lidric.
Voi e i dis a le femine se mi podeve da un in di ai. Il veciu cal scoltave
sentat sul so ciadreon int’un cianton visin dal fogolar al’ha capit chi ves
domandat un in di alc…Al clame visin la malarie e i fedele; cheste va ju in
cantine e a torne su cun doi gran vues di purcit e mi dis: “Ciape” e io i ripet
che i volevi un poc di ai. Alore il veciu a i dis: “Dai ancie chel”. Poc
considerant che in chel timp les condizions de me famêe no erin florides, no l’è
stat tant for di puest il so malintendut e “alc” cun “ai” podin prestasi par
sei confondus.
A proposit de Rusie, ultim Pais dulà che Filip a la lavorat,
cun lui a erin diviers pincanes emigras
e un di lor ha la sposat une biele femine ruse e dute le so vite di sposade a l’ha
vivide a Pincan vint formade achi une grande e rispetabil famêe. A fevelave le
neste lenghe furlane a le so maniere, e a causave tante simpatie a sintile
fevelà e il mut ca meteve a dum i sie discors par fasi intindi. In timp dale
invasion dai Cosacs quant che i capos a levin in municipi par fevelà cul podestà
o cul segretari dai lor problemas, a le clamavin lie par ca ur fases da
interprete. Int’une ocasion ca vignive fur dal municipi dopo une riunion, in te
strade, un gruput di giovins a si son vicinas disingli: “Marie cè anin dit i
Cosacs?” e li econtinuant a ciaminà circumspiete e disimuladamenti par no
dismovi sospiets, a ur à rispuindut cul so furlan: “Liste lor han cuarde taiait”.
Di Filip a mi è restat il ricuard di chei doi voi che
cialavin a traviers di che sflese tra il bavar de mantelline e l’ale dal
ciapiel, e la convinzion che sot il rest di che mantelline a si squindeve un
grant furlan, un om sensibil e di une grande qualitat umane.
14 de noviembre de 2011
IL NONNO E I BOTTEGAI
Siamo ai tempi dell’abbondanza, della bonanza, dei super e ipermercati
dove si compra e si vende alla grande e può sembrare una meschinità riandare ai
tempi delle bottegucce di paese in cui si vendevano generi alimentari e altre
cose di basica necessità. E forse questo contrasto di cambi integrali nelle
comunità e nel nostro complesso sociale di oggi che induce al ricordo di quei
tempi, del resto non proprio molto lontani, e trarne qualche comparazione con
il modo di sussistere ai tempi di allora specie nel campo alimentare dato che è
il tema che si presta a questo confronto. E’ inevitabile che a volte,
rivangando con il pensiero nel passato, sorgano ricordi accumulati durante il
transito per la vita. Ricordi belli, buoni, tristi, penosi, ecc..., a volte dal
sapore amaro, nati da passaggi per tratti di oscurità esistenziale.
Riaffiorano, nonostante i molti anni trascorsi, senza perdere la chiarezza
delle situazioni vissute specialmente quando con loro portano momenti di
tristezza e avversità. Di quei tempi e di quelle vicissitudini mio nonno spesso
mi parlava, risentito, e imprecando contro chi poteva aiutare in caso di
necessità e non lo faceva, e se acconsentiva, l’usura, la speculazione e lo
strozzinaggio erano sempre presenti negli accordi o contratti che si
stipulavano. Stavolta il nonno l’aveva contro i bottegai che erano i più vicini
e con loro il tratto era quasi giornaliero. Da notare che l’epoca cui si
riferiva erano gli anni venti-trenta del secolo scorso e intorno alla gente bisognosa,
di scarse possibilità economiche, si erano formate delle circostanze, che
spesso doveva sopportare abusi e soprusi con l’amor proprio maltrattato e senza
poter reazionare in loro difesa, non per codardia, ma per una linea di
condotta, di sopportazione, di umiltà, a volte per non urtare suscettibilità
che avrebbero potuto compromettere la loro sussistenza e per nulla esagerato,
la loro sopravvivenza. Tacere era una forma di tolleranza del più debole verso
il più forte e questo atteggiamento veniva da molto tempo addietro, da secoli,
e durò fino alla soglia della Seconda Guerra Mondiale il cui stato creò
condizioni negative diverse che non richiedono nessuna spiegazione in quanto
furono situazioni estreme entro le quali tutto poteva succedere. Nel post
guerra si verificarono molti cambiamenti nelle nostre condizioni di vita.
Avvennero miglioramenti decisivi nel campo sociale, economico, possibilità per
tutti i giovani di accesso ad istituti di educazione superiore. Oggi a queste
migliorie dobbiamo un tenore di vita ottimo, di cui mai prima avevamo goduto.
Tornando al nonno, seguiva brontolando: “Questi disonesti che si beffano e
speculano sulle necessità dei loro clienti e paesani”. Le imprecazioni contro i
bottegai erano più per sfogarsi di ciò che gli bolliva dentro che per dirigersi
a me che ero un bambino sulla soglia dell’adolescenza e certe cose non le
potevo capire nella loro completa realtà. Nel paese dove mio nonno visse la
maggior parte della sua vita c’erano diversi esercenti di botteghe che vendevano
generi alimentari e altri articoli di prima necessità per la sussistenza della
comunità. Il nonno, a mano a mano che crescevo, e potevo assimilare il suo
discorrere, mi parlava di alcune forme di staffa e imbrogli che di consuetudine
commettevano due dei bottegai i quali erano più dotati per frodare il prossimo:
tirare con forza, certi alimenti, sul piatto della bilancia, in modo che la
lancetta o il fido segnassero il peso giusto, togliendoli poi rapidamente poiché
lasciandoli fermi si poteva notare i vari grammi mancanti che variavano secondo
la quantità comprata. Altro stratagemma era, pressionare con disinvoltura con
il dito mignolo, sul piatto della bilancia, infilato sotto la carta usata per
avvolgere la compra. Altra manipolazione disonesta era il travaso dell’olio dal
loro recipiente a quello del cliente. Essendo l’olio un liquido denso e
ritirando il misurino con prontezza restava in questo una quantità che la
misura comprata risultava sempre scarsa. Da tener presente che l’olio si
comprava sfuso, in piccole quantità che spesso non superavano un ottavo o un
decimo di litro. Può sembrare anche meschino dare a conoscere questi piccoli
imbrogli, ma considerando che l’economia domestica era molto stirata e non
poteva permettere manipolazioni che sottrassero assolutamente nulla. In buona
parte la clientela era dotata di un libretto dove il bottegaio marcava l’importo
di ogni compra e non poche volte le cifre marcate erano superiori a quelle
reali corrispondenti ai generi comperati. Questo succedeva approfittando della
poca dimestichezza che le donne avevano con le lettere e con i numeri. Altri
raggiri si sommavano alla condotta di questi bottegai e altri maneggi subdoli
praticavano nei loro negozi tanto da meritarsi tutti gli epiteti che il nonno usava
per distinguerli. Fino a qui le birbonate di questi commercianti potevano
essere comuni con molti altri disseminati nel nostro territorio, ed essendo
privi di scrupoli etici e morali il loro sonno non fu mai turbato dall’intranquillità.
Ma le cose prendono un altro aspetto molto più serio quando anche per una
modica quantità di denaro dovuto e non soddisfatto il pagamento del debito alla
data fissata, senza indugi e meno scrupoli di coscienza, casa e terreni del
cliente moroso passavano in possesso del bottegaio con la compiacenza di
legulei collaboratori che condividevano il bottino praticando manovre che,
evadevano in certi casi, abilmente la giustizia e la legalità. Leggi che ai
diseredati dalla sorte sembravano disumane e al finale della contesa favorivano
sempre il bottegaio e il cliente veniva privato di beni che per gli altri erano
di necessità vitale e avrebbero dovuto essere inalienabili. Le leggi sono leggi
e danno diritti e obbligano a doveri i cittadini, ma in questo caso erano
troppo severe, troppo drastiche applicate da uomini troppo ligi al dovere che
in certi casi potevano essersi comportati con più elasticità nella loro
applicazione verso famiglie che i pochi beni che possedevano costituivano la
loro sopravvivenza.
Il non pagamento del debito al commerciante non era dovuto a
comportamento capriccioso del cliente, ma spesso era condizionato dalla rimessa
di denaro che avrebbe dovuto arrivare da qualche familiare emigrato all’estero
o al vaglia spedito da una città italiana, ugualmente da familiare emigrato in
patria, comunque lontani dai nostri paesi la cui gente in alta percentuale
viveva dall’emigrazione. Se il denaro non arrivava, e ciò poteva succedere per
vari motivi: infortunio sul lavoro, malattia, disoccupazione, ecc. Il bottegaio
che non era mai disposto a concedere dilazioni né considerazioni sul mancato
pagamento, procedeva al pignoramento e susseguente appropriazione dei beni
immobili dei malcapitati clienti. Furono casi esecrabili sotto ogni aspetto. Per
non procedere legalmente, quanto una donna con attributi e condizioni
appropriate, accettasse le proposte indecorose ed infamanti del bottegaio,
chiara induzione alla prostituzione. Con queste modalità molti beni di povera
gente, gli unici che possedevano, passarono ad ingrossare i capitali di questi
trafficanti, riducendo oneste famiglie in uno stato pietoso affogandosi nella
miseria, e nell’indigenza. Solo nell’età adulta compresi in tutta la sua
drammaticità e con chiarezza le situazioni che nell’ambito sociale in cui
vivevamo, venivano succedendo e la rabbia malcontenta del nonno che non poteva
sfogarsi per ottenere giustizia e un tratto umanitario di cui avevamo pieno
diritto.
13 de noviembre de 2011
IL “PALLINO” PER LE PALLINE DI MATTIA
Mattia è solo un Mattia fra tanti, un umile cittadino che non ha nulla a
che vedere con il famoso “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello. E’ un
radiotecnico, un amico che sempre si è comportato in modo normale, corretto,
equilibrato, ma….da un tempo a questa parte, spesso, nelle sue conversazioni,
gli argomenti sono diversi dal frasario dal frasario convenzionale e dal
discorrere comune. Mi fa pensare, stando a certe espressioni, che l’uomo sia un
po’ fissato quando si riferisce al tempo e al modo di impiegarlo. L’uso del
tempo, ultimamente per lui, mi stavo dando conto che era diventato ossessivo,
specialmente quando si trattava di disporre le priorità d’impiego, scordandosi
che questo fenomeno astratto ha mille forme e colori nelle sue manifestazioni.
E’ fuggente, piacevole, doloroso, corto, lungo, a seconda dell’impiego che se
ne faccia; allegro, triste secondo le circostanze in cui ci si trova
involucrati e ha infinite altre forme ancora. Ora Mattia, riferendosi al tempo,
ricorreva ripetutamente a molte frasi fatte, quali: “Haa, come passa veloce il
tempo, già siamo a fine anno, mi sembra ieri che i miei figli erano bambini e
già mi hanno fatto nonno.”
“Si il tempo passa e dovrei fare tante cose ma non ci riesco, non riesco
a coordinare le priorità che più mi interesserebbe fossero esaudite.” Altra
espressione sul tema era lamentarsi che un altro giorno se n’era andato ed
altre ancora avevano sempre il tempo negativo come protagonista. Il ripetersi
troppo spesso di queste lamentele è l’evidenza che Mattia è vittima di una
forma maniacale contro il tempo. Non accetta più di essere ricordato al suo
compleanno e mal sopporta le feste di fine anno. Mi sorprese un giorno
dimostrandosi sereno e tranquillo nella conversazione dicendomi: “Da tanti anni
penso a qualcosa per misurare il tempo a modo mio”. Ciò aumentò la mia
attenzione e curiosità su ciò che volesse dire. Pensai che avesse inventato un
nuovo tipo di orologio, come se non ne avessimo già un’infinità per ogni
necessità, e prestazione, per misurare il tempo. Continuò “Vedi oggi mi sono seduto
e ho fatto un po’ di conti: una persona in medi dovrebbe vivere settantacinque
anni, alcuni vivono di più, altri vivono di meno, però la media è quella.”
Allora moltiplicò 75 per le 52 settimane all’anno e mi diede 3900 che è il
numero di sabati che una persona dovrebbe trascorrere in tutta la sua vita.
Trascorsi molto tempo a pensando a tutto questo e, giunto a 55 anni, mi diedi
conto che avevo vissuto più di duemilaottocento sabati! Pensai allora che se
arrivassi ai 75 anni mi resterebbero solo mille sabati per vivere e godere il
resto della mia vita. A questo punto visitai tre o quattro negozi di giocattoli
e comprai mille palline di vetro, come quelle con cui giocavamo a boccette e a
spanna da bambini.
In casa le depositai in un vaso di cristallo trasparente. Ogni sabato,
partendo da allora, prendevo una pallina e la buttavo nel cesto dei rifiuti.
Vedendo diminuire le palline mi sentivo pressionato verso il compimento delle
cose veramente importanti della mia vita.
Ora ti dirò, prima di lasciarci, stamattina ho tolto l’ultima pallina
dal vaso di cristallo……Allora mi diedi conto che, se vivo fino al prossimo
sabato, mi sarà concesso un po’ più di tempo, un po’ più di vita…..e se c’è
qualcosa che tutti apprezziamo è poter disporre di tempo supplementare.
Strano modo usava Mattia per controllare il tempo che poteva rimanergli
come risiedente di questo mondo, quando ogni giorno, purtroppo, fatti e cose ci
ricordano di tenere la valigia pronta per il fatale viaggio che tutti dovremo
compiere un giorno quando la tenebrosa signora della falce reclamerà la sua
vittoria dopo averci dato tutta la vita di vantaggio.
Mattia, dal momento che buttò l’ultima pallina, ogni giorno faceva
qualcosa di inconsueto nelle sue abitudini. Portava la famiglia a mangiare
fuori al ristorante, comprava fiori alla moglie, la svegliava al mattino con un
bacio, invitava i figli a giocare a carte, cosa che sempre gli piacque però non
aveva potuto praticare questo gioco a suo gusto; insomma da quel giorno Mattia
era come se avesse acquistato una nuova personalità. I familiari erano
perplessi per questo cambio, ma non riuscivano ad attribuire una chiara causa a
tale comportamento che non avendo effetti negativi non li preoccupava
maggiormente. Io che ero venuto a conoscenza del suo “pallino” per le palline,
vedevo e giudicavo, e non potevo ignorare la fissazione che Mattia aveva
dedicato al tempo. Se l’avesse presa con il tempo come fenomeno meteorologico
che ha qualcosa di tangibile, sarebbe rimasto con i piedi a terra, ma filare su
quello spazio intoccabile, impalpabile, indefinito fenomeno che fluisce
inarrestabile in una successione di istanti, è follia. Più strano è perdere la
sua nozione a beneficio della nostra pace e serenità. Auguriamoci che Mattia
possa attendere alle sue priorità e che la tenebrosa signora della falce tardi
il più possibile a presentarsi al suo cospetto reclamandogli il suo tempo ormai
scaduto.
12 de noviembre de 2011
IMPERATRICE DELL’UNIVERSO
Il primo giorno dell’anno iniziò con una festa singolare, “Santa Maria
madre di Dio”. Appoggiarsi a lei è sinonimo di sicurezza e protezione. E’
logico festeggiarla e porre ai suoi piedi il nostro futuro. San Josè Maria
soleva chiamarla con il titolo che precede queste righe. Vogliamo anche
festeggiare le donne italiane, soprattutto quelle che discretamente accudiscono
con sacrificio la propria famiglia, senza sperare in ricompensa alcuna. Qui
viene al caso una rassegna che accusa un difetto nella donna, quando Dio creò
la donna un angelo gli domandò perché investiva tanto tempo in lei. Dio gli
disse: “Hai visto la lista delle sue specificazioni? Non può essere di
materiale plastico. Dovrà avere più di duecento pezzi intercambiabili e
alimentarsi solo del necessario. Deve avere un grembo in cui possano
accomodarsi quattro bambini allo stesso tempo, dare un bacio per curare da un
ginocchio ad un cuore infranto, e tutto lo farà solo con due mani”. L’angelo meravigliato
disse: “E’ impossibile!”. “E questo è solo il modello standard” disse Dio. “E’
troppo lavoro” disse l’angelo “terminerà domani”. A ciò Dio rispose: “No, sono
vicino a concludere la mia opera maestra. Lei si cura solo quando si ammala e
può lavorare diciotto ore al giorno”. L’angelo si avvicinò alla donna e la toccò.
“Però è cosi fragile e soave Signore….E’ soave, però è tanto ciò che si può
agguantare!”. L’angelo notò qualcosa e toccò la guancia della donna con la
mano. “Signore sembra che questo modello abbia una fuga….”. “Ti ho detto che la
stavo creando con molte, forse troppe, cose. Quella non è una fuga, è una
lacrima” corresse Dio “e che cos’è una lacrima? Le lacrime sono la sua maniera
di esprimere gioia, amarezza, amore o sofferenza”. “Sei un genio Signore, la
donna è meravigliosa” disse l’angelo alla fine. Lo è. Sorridono, quando
vogliono gridare. Cantano, quando vorrebbero piangere. Piangono, quando sono
felici, e ridono, quando sono nervose. Lottano per ciò che credono, non
accettano un “no” come risposta definitiva. Sono grandi negoziatrici. Si
privano di tutto per favorire la famiglia nelle necessità. Piangono, quando i
figli trionfano. Il loro cuore si rompe, quando muore una persona cara.
Concluse Dio: “Nonostante tutto questo ha un difetto: si dimentica di quanto
vale!. Non estrassi la donna dalla testa dell’uomo per ricevere i suoi ordini.
Né dai suoi piedi perché fosse la sua schiava ma dalle sue costole perché stia
sempre vicino al suo cuore.”. E come Dio ha molto buon umore dicono che dopo
aver creato l’uomo il settimo giorno riposò. Poi creò la donna e da allora non
ha avuto neanche un momento di riposo!
11 de noviembre de 2011
LA COSACCA E LA CASACCA
Hop, hop, hop, scandito e ripetuto a tempo ritmato era ciò
che si udiva proveniente dall’interno di un cortile che dava sulla strada dove
in quel momento stavo transitando. Incuriosito al sentire quella voce, essendo
il portone socchiuso, introdussi la testa e vidi Ivan a braccia conserte che
stava tentando qualche passo di una frenetica danza russa, ma, come di
consueto, era ubriaco e il suo ballo risultava una caricatura di quelle famose
danze in cui, di tanto in tanto, i suoi compagni solevano esibirsi facendolo
molto bene, con buon ritmo, e figure quasi acrobatiche.
Katiuska, la moglie di Ivan, dalla porta della casa dove
erano alloggiati, lo guardava con commiserazione e visibilmente
contrariata. Katiuska era una
donna bella, alta e ben formata, bionda con grandi occhi azzurri. Montava a
cavallo come un’esperta e provetta amazzone, non smentendo in questo la fama
della sua razza. Erano cosacchi di stirpe tartara stanziati nelle steppe della
Russia meridionale e sulle rive del Don, arrivati nei nostri paesi ingannati
dai nazisti che invasero la Russia durante la seconda guerra mondiale dicendo
loro che le nostre regioni, Friuli e Carnia principalmente, erano territori
abbandonati dalle rispettive popolazioni per fuggire alla guerra. Quindi terra,
case e ogni bene era a loro disposizione per fondare la loro nuova patria.
A Pinzano arrivarono nel settembre del 1944. In quel giorno
si parse la voce tra la gente del paese: “I cosacchi, i cosacchi, arrivano i
cosacchi”. Il disagio, ma anche la curiosità erano evidenti tra le persone
visibilmente concitate nell’attesa di vedere le facce di questa gente esotica
di cui avevano solo un’idea attraverso i racconti dei romanzieri che
riportavano le loro vicende. Dall’alto del colle che sovrasta il paese si
poteva scorgere lontani tornanti della strada che si snoda tortuosa e da questa
alzarsi delle nuvole di fumo bianco. Era la polvere mossa dalle carrette, dagli
zoccoli dei cavalli e altri carriaggi dei quali si servivano per la loro locomozione.
Giunsero con le loro famiglie, donne, vecchi, bambini e le
loro masserizie, un popolo completo che veniva a stabilirsi nei nostri paesi,
nelle nostre case. Vedendoli da vicino, più che le loro fattezze mongoloidi, ci
sorprese lo stato trasandato del loro abbigliamento, la visibile mancanza d’igiene
personale e, più avanti, scoprimmo anche altre tare proprie della loro razza.
Arrivati tra noi si resero conto subito di essere stati
ingannati e burlati dai nazisti. Incontrarono le case occupate dalla nostra
gente, legittimi proprietari. Nessuno era fuggito, qui la guerra si faceva
notare in molte forme negative però non c’era un fronte, una linea di
combattimento. In certe località d’interesse strategico anche la nostra regione
fu oggetto di bombardamenti a ponti e linee ferroviarie però ciò non produsse l’esodo
come nella guerra 15-18 quando molta gente dovette allontanarsi e cercar
rifugio altrove come profughi, essendo allora queste zone teatro di guerra.
In questo conflitto la gente rimase nelle proprie case
vivendo come sempre, ovviamente, condizionata da molte penurie e sofferenze e a
questi patimenti si aggiunse quello che i cosacchi non vollero accettare di
alloggiare in locali pubblici come avevano disposto le autorità civili, scuole,
capannoni, o altro stabile adeguato per accogliere gruppi numerosi di persone,
ma vollero farlo in seno alle nostre famiglie, interponendosi ai civili. Ciò
per evitare eventuali attacchi da parte dei partigiani le cui formazioni erano
attive nella nostra regione e questa fu la ragione per cui i tedeschi portarono
qui i cosacchi, per contenere e arginare il più possibile le operazioni
partigiane.
Ci trovammo così con due o tre di loro alloggiati nelle
nostre case. Tra l’altro si preparavano i loro pasti con alimenti rubacchiati
qua e là poiché i tedeschi non gli davano né viveri né armamenti adeguati e
sufficienti alle loro necessità, per alimentarsi e per difendersi. Perciò come è
nelle loro tradizioni e abitudini vivevano di razzia.
Organizzavano delle scorrerie nelle borgate o in qualsiasi
luogo per provvedersi di fieno per i cavalli e di ogni altra cosa sulla quale
posassero gli occhi e che poteva essergli utile. Di notte erano costanti le
incursioni nei pollai. Erano noti per la loro dedizione all’alcol e tracannavano qualsiasi bevanda alcolica, a volte
anche tossica, come può essere l’alcol denaturato. I cosacchi erano fedeli
servitori dello zar e costituivano reparti delle truppe regolari del suo
esercito. Si servivano di loro particolarmente per sedare tumulti, sommosse o
qualsiasi manifestazione contraria al regime zarista, o che potesse offuscare
la propria immagine. Erano degli abilissimi cavallerizzi e temibili nei loro
interventi. In compenso delle loro prestazioni gli era permessa la razzia delle
località coinvolte e in questi casi le loro azioni si trasformavano in
scorrerie banditesche. Saccheggiavano, rubavano, estorcevano, violentavano le
donne e si impadronivano di tutto ciò che potessero trasportare lasciando morte
e desolazione al loro passaggio.
Con l’avvento della rivoluzione russa nel 1917 e l’instaurazione
al potere del regime comunista furono assassinati lo zar e tutta la famiglia
Romanov. I cosacchi furono perseguitati e molti di loro rinchiusi in campi di
concentramento o di sterminio. Per i tedeschi non fu difficile ingannarli
approfittando del loro risentimento contro il regime vigente in Russia e con
false promesse li convogliarono verso il Friuli e la Carnia.
Come collaborazionisti, masnadieri, al servizio dei nazisti,
non possono essere compatiti e tollerate le loro azioni perché anche loro, come
i loro padroni, hanno lasciato una scia nefasta al loro passaggio per il Friuli
e specialmente in Carnia. Per ciò che mi riguarda personalmente devo lamentare
l’aggressione a mio padre. Per derubarlo fu atterrato con un colpo alla testa
col calcio del fucile, gli spararono poi un tiro ma fortunatamente la
pallottola gli passò di striscio sul cuoio capelluto. Le conseguenze furono
molto gravi ma sopravvisse.
La guerra è uno stato anomalo che può succedere durante la
nostra esistenza, ne siamo succubi senza volerlo, e siamo coinvolti ed esposti
a situazioni estreme, soffrendo le conseguenze di questo stato di violenza e
chi sopravvive, sia pure con le lesioni nell’anima e nel corpo, dovrà
ringraziare la provvidenza comunque, di essere ancora in vita.
Fra le pieghe di queste violenze, sotto la pressione della
paura, l’uomo può perdere il senso civile della ragione e il raziocinio dei
suoi atti. Ma sempre può sorgere l’eccezione e affiorare nell’animo sentimenti
compassionevoli verso il nemico che un momento prima volevamo andasse fuori dai
piedi. E’ il caso di mia madre che nei giorni di fine guerra ha avuto parole di
commiserazione verso due cosacchi che avevamo in casa e che a conoscere il
proprio destino piangevano con la testa appoggiata sul tavolo. Diceva: “sono
così giovani e sicuramente avranno anche loro una mamma che ansiosa li aspetta”.
E’ meraviglioso, dentro quel marasma di emozioni che causa l’essere coinvolti
nella guerra, lasciare il sopravvento all’amore, al perdono al posto del
risentimento e all’odio.
Un altro fatto che conferma ciò che è appena scritto qui
sopra è che Katiuska, pur conoscendo e sapendo che nella casa di fronte viveva
la mia fidanzata e spesso ci vedeva insieme, e lei era cosacca e nemica, non
dimenticava di essere donna, in varie occasioni si atteggiava seduttrice
facendo risaltare ciò di cui era ben dotata, si avvicinava insinuante un po’
troppo, e se i nostri idiomi non si capivano, un altro linguaggio era ben
comprensibile, conosceva l’arte della seduzione. Infine era donna e tutte le
donne nascono dotate dell’arte per sedurre e conquistare gli uomini che sempre
sono più ingenui. Io facevo il tonto per non trovarmi coinvolto in un’avventura
che per varie ragioni doveva essere evitata. Prima di tutto frenare,
mortificare il mio orgoglio maschilista, la più delicata e importante, potevo
essere accusato di collaborazionismo con il nemico, Ivan…il terribile, avrebbe potuto
squartarmi con la spada.
Il motivo che mi dava l’opportunità di vedere spesso la
cosacca è che viveva di fronte alla casa della mia ragazza che io frequentavo
spesso. Qualsiasi intimità più in là di “Dasvidania” (saluto russo) sarebbe
stato un guaio che non volevo succedesse. Per ultimo Katiuska era bella sì, ma
la poca igiene personale, e l’alito di aglio e cipolla che lei come tutti i
cosacchi mangiava in abbondanza, avrebbe tenuto a distanza il più temuto degli
uomini, forse meno Ivan, che oltre all’aglio e cipolla doveva aggiungere i
miasmi dell’alcol.
Ciò che mi fa ricordare Katiuska non sono le sue attitudini
deduttive ma una sera che, come tante altre, ero in casa della mia ragazza mi
si avvicinò e con cipiglio minaccioso mi prese per il bavero della giacca e mi
disse: “Tu partisan!” e tirando il bavero per la punta aggiunse “Americana!”
riferendosi al giaccone che portavo. Rimasi un momento impacciato e timoroso,
poi dissi a mia volta. “No partisan!” Parlando all’infinito, accompagnai con un
gesto simulando un aereo e facendone il rumore, “San Daniele caduto aereo
americano, io prendere questo”.
Era vero che era caduto un aereo, un bombardiere, a San
Daniele e casualmente lo vidi cadere, trovandomi con la bicicletta molto vicino
al posto, per curiosità assistendo ad un fatto così straordinario, insieme ad
altra gente accorsa, mi avvicinai all’aereo non con l’intenzione di
impossessarmi di qualcosa, arrivai a vedere solo un morto negro. In quel
momento giunsero due fascisti con il moschetto e ci spararono ai talloni per
allontanarci.
Comunque aveva ragione lei, ero partigiano e la giacca era
la parte superiore di una tuta di un pilota inglese. Mi era stata regalata da
un maggiore inglese capo della missione militare della quale facevo parte come
autista nelle formazioni partigiane. Durante il grande rastrellamento nell’autunno
del 1944, sciolte le formazioni fino alla prossima primavera, rimanemmo liberi
di raggiungere le nostre case. Io potei superare lo sbarramento delle truppe
tedesche, cosacche e missini della repubblica di Salò, che ci stavano braccando
nella zona pedemontana della Val Tramontina, e dopo varie peripezie arrivai a
casa mia con la giacca in questione.
Temevo che la cosacca, che in seno alle sue truppe aveva
qualche gerarchia di comando, potesse valersene per arrestarmi o causarmi qualche
noia, però non lo fece e il problema “giacca” non ebbe altro seguito. In quei
tempi non era raro vedere le nostre ragazze vestire camicette e altri indumenti
fatte con la tela dei paracadute inglesi o americani discesi dai nostri cieli a
rifornire le formazioni partigiane di viveri, armi e altre vettovaglie
necessarie alla causa.
Un fatto strano devo aggiungere a questi aneddoti e brevi
storie di cosacchi. Finita la guerra negli anni cinquanta emigrai in Venezuela
dove esercitavo il mio mestiere di fotografo e un giorno mi chiamarono per fare delle fotografie in
occasione di una festa familiare. Giunto sul posto mi resi subito conto che
erano stranieri e chiesi di dove fossero, quale era la loro provenienza e mi
dissero che erano russi.
A loro volta mi domandarono la mia provenienza e dissi che
ero italiano, di Udine. Una delle donne presenti mi disse che conosceva
Spilimbergo. L’uomo che le stava a lato la interruppe bruscamente con una
gomitata al fianco e uno sguardo fulminante facendola a tacere. Era evidente
che erano cosacchi, forse gli stessi che aggredirono mio padre. Questa sì che
fu una strana e rara coincidenza, incontrare a diecimila chilometri di distanza
questi residui di guerra che dieci anni prima causarono tante sofferenze alla
gente dei nostri paesi.
Tutte le vicende narrate sono lo specchio di una realtà
vissuta. Vive la speranza che la crescita della cultura crei uomini savi
illuminati, che sappiano evitare le guerre che lasciano solo degenerazione,
patimenti, sofferenze e dolore, e le generazioni future godano di pace,
giustizia e libertà.
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