20 de noviembre de 2011


BANANE CACAO E STREGONI

A volte la curiosità può causare dei problemi sgradevoli anche se bene intenzionata, e non certo per inquisire su fatti o cose altrui, ma dettata per conoscere semplicemente nuove esperienze, anche se in questo caso un tanto singolari.
Nella traiettoria delle mie necessità c’è un lungo periodo trascorso lontano dalla terra natia in altre latitudini di questo mondo.
Espatriato in Sud America, nel Venezuela, cercando migliori condizioni di vita di quelle che mi poteva offrire in quel momento la mia patria. Fino al momento di partire lavoravo come fotoreporter a Milano. Così partii con un buon bagaglio di esperienze, consigli e forme sul come maneggiare questa attività. Fra tutto questo mi rimasero chiari alcuni suggerimenti e insegnamenti, talvolta detti e imposti con una certa pressione, al fine che venissero messi in atto durante il lavoro. Ciò che tra l’altro mi rimase presente fu l’esortazione, quando per varie ragioni l’attività si tornava stagnante, a uscire e fotografare qualsiasi cosa che avesse carattere di attualità, di curiosità, di interesse per il grande pubblico. Quindi giunsi nel Venezuela animato da questo spirito di ricerca, di curiosità e interesse per tutto ciò che non fosse comune o apparisse di una certa originalità. A voglia se in questo Paese esotico vi erano cose interessanti nel campo del reportage. Mi diedi conto che se avessi dovuto tradurre in immagini queste cose avrei dovuto farlo subito, prima che mi assuefacessi di loro, poiché, se avessi messo del tempo di mezzo, non avrebbero causato le stesse emozioni. Voglio far notare che in quel Paese non avrei potuto, almeno al principio, esercitare il fotoreportage in quanto non conoscevo la lingua, l’ambiente, il mezzo per pretendere di svolgere tale attività. Ero emigrato per dedicarmi al lavoro di studio ed è ciò che feci per tutto il lungo tempo che rimasi in Venezuela. A Milano comunque aspettavano qualche mio reportage interessante su qualche argomento di questo Paese, essendo rimasto tra noi un accordo informale che, se mi fosse presentata una buona occasione, lo avrei fatto. Però al principio qui trovai un ambiente piuttosto ostile, molto poco condiscendente. Certo che il virus del fotoreporter lo avevo nel sangue e non mi abbandonò mai. Fin dai primi giorni furono molte le cose e situazioni che si prestavano per essere tradotte in immagini, documentare i grandi contrasti che più si evidenziavano nella vita quotidiana e davano motivo a comparazioni, considerazioni, che si scontravano con al nostra origine, con la nostra cultura, formatasi da un lungo processo evolutivo. Sono certe manifestazioni primitive che perdurano ancora in una certa fascia sociale che più mi colpirono e che si presentano come soggetto alla testimonianza che vorrei dare a conoscere. Ci fu un’esperienza che volevo tradurre, documentare fotograficamente, però non fu possibile per varie ragioni, quindi decisi di viverla personalmente. Molto si è scritto sui Paesi del Sud America, da romanzieri, narratori, novellisti, giornalisti, ma poco si è detto di quel mondo magico, esoterico, che esiste ancora sfidando l’evoluzione culturale e il modernismo. Nel Venezuela tra la mescolanza di razze sussiste il metticiato e da li affiorano inevitabilmente per atavismo, pure dopo molti secoli, usi, costumi, riti di eredità genetica. Inoltre appaiono comportamenti che, anche questi, sono riflessi non dimenticati dei patimenti sofferti dalla razza negra durante lo schiavismo e così anche dagli indios per lo sterminio e le crudeltà sofferte, da parte dei conquistadores spagnoli, e la discriminazione sofferta sia dagli uni che dagli altri, che li portò all’isolamento sociale per secoli fin quando Simon Bolivar non liberò cinque nazioni sudamericane che penavano sotto lo stesso regime oppressivo.
Altre manifestazioni di questo rango sociale vengono alla superficie da radici ancestrali, espressioni magiche rese evidenti dalla “brujeria” (stregoneria). Di grande importanza è la musica della razza nera che si esprime maggiormente con strumenti a percussione costruiti in modo artigianale da tronchi di legno scavati che, a seconda del diametro, daranno un suono diverso e diversi sono i loro nomi: curbeta, mina, tambor e questi possono variare secondo le regioni. Sono percossi, suonati con grande maestria e il loro linguaggio, il loro ritmo è molto interessante nell’arte musicale, e risultano suoni e ritmi non meno conturbanti, suggerendo voci misteriose di magia bianca e nera. Destano tanto interesse questi ritmi, specie durante i loro festeggiamenti che richiamano in massa la gente negra dove non mancano canti, suoni e balli negroidi.
Non manca nelle loro feste la presenza di compositori, musici, musicologi di fama mondiale, i quali asseriscono che se nella musica leggera ritmica dovrà nascere un nuovo ritmo, la fonte sarà la musica negroide. I loro festeggiamenti più solenni sono il 24 giugno, giorno di San Giovanni, dove, oltre alla musica assordante dei tamburi, ci sono cortei, balli, il tutto accompagnato da bevande alcoliche in quantità. Questa festa ha una caratteristica unica ed è che, ogni uomo veste in frac, con i piedi scalzi, callosi e polverosi, con cilindro, camicia bianca, cravatta adeguata, rappresentando così una parodia dei loro padroni. Questo è il giorno della rivincita burlesca verso i loro proprietari e risale ancora ai tempi dello schiavismo dell’epoca coloniale. Il giorno di san Giovanni era permessa loro questa farsa grottesca che si ripete ancora oggi nelle regioni dove risiedono i discendenti degli schiavi sbarcati qui secoli fa, loro ancestri provenienti dall’Africa.
Questa commedia che si ripete ogni anno forse trova una spiegazione nel fatto che si svolge una volta all’anno, dentro la ristrettezza e la disciplina in cui vivevano, fosse ordita perché sfogassero la repressione del risentimento che nutrivano verso i predatori dei loro avi e verso l’oppressione dei loro padroni bianchi.
Tutt’intorno alla vita spirituale dei negri, e avvolto in un manto di mistero non facilmente penetrabile, intriso di feticismo, essoterismo, occultismo, sorgono da questi fenomeni e trovano posto stregoni, sensitivi, chiaroveggenti, indovini, avvolti nel mistero della magia bianca e nera. Da tutto questo nacque la mia curiosità.
Questo mondo volevo tradurlo in immagini anche se si mostri con molta riservatezza e se ne parli sommessamente come volendolo celare al cittadino moderno, essendo un mondo di loro dominio inteso da loro che però materialmente ha il suo lato speculativo e qui si apre lo spiraglio dell’accessibilità anche ai bianchi. Non di rado ai colletti bianchi che accorrono per conoscere il loro futuro politico, economico, salute, amore e altre predizioni che intendono strappare al fato.
Personalmente non ho mai creduto e non crederò mai a queste ciarlatanerie però da un lato non lascia di essere interessante e appetibile dal punto di vista informativo. Per questo volevo conoscere qualcuno di questi stregoni anche facendomi passare come…paziente bisognoso delle loro prestazioni. Ebbi l’opportunità di avvicinarmi ad uno di loro grazie ad un mio cliente il cui papà era un grosso possidente terriero in una località famosa come residenza di stregoni che stando a ciò che si dice, è un paesino chiamato “Virongo”. C’è ne uno in ogni famiglia tanto che vanta il nomignolo di “Pais de los brujos” (paese degli stregoni); è una località distante dalla capitale Caracas un centinaio di chilometri, abitata, quasi nella totalità, da negri ed è ovvio dedurre che queste pratiche sono ereditate dai loro ancestri africani.
Virongo è ubicata nella regione di Barlovento, zona molto calorosa dove ai tempi della colonia ubicarono gli schiavi, poi usati nella coltivazione di cacao, banane, papaia e altri frutti tropicali.
Le aziende erano proprietà di signorotti, classe che formava la fascia sociale danarosa di Cararcas, e le loro aziende erano tanto redditizie da meritarsi l’attributo di “gran cacao” beneficiando di tali rendite. Con la raccomandazione del mio cliente partii un giorno e, anche se con me portavo la macchina fotografica, Julian Gonzalez, questo era il nome del mio cliente, mi prevenne che non mi sarebbe permesso di fare fotografie, mi disse di tentare però, anche se sicuramente si sarebbe negato di farsi fotografare. Ero in cammino, dovevo arrivare e prendere contato con il “Brujo” Josè Luis Blanco, questo era il suo nome. Giunsi in prossimità del Paese dopo essere transitato per una strada di terra battuta, bordeggiata da alberi di palma e ai lati, oltre questi, c’erano piante di cacao e banane che formavano una densa vegetazione verde intenso.
Era una giornata caldissima, seguivo la mia strada lamentando il mal funzionamento dell’aria condizionata dell’automobile, perciò sentivo un calore pesante e molesto. Ad un certo punto vidi un campesino (contadino) montato su un asinello col macete (coltellaccio tutto fare lungo quasi un metro) appoggiato fra braccio e avambraccio all’altezza del gomito, come è consuetudine andare per la gente di campagna di tutto il Venezuela. Approfittai per chiedergli quanto mancava per arrivare al paese e mi rispose: “Està ahì mismito” (poco distante). Anche questa è una risposta consueta di questi informatori occasionali, però non corrisponde mai alla realtà poiché ahì mismito è ancora lontano molti chilometri. Di fatto viaggiai ancora mezz’ora prima di vedere le prime case di Virongo. Molte di queste sono di “bajareque”, vale a dire costruite con pantano misto con paglia tagliata corta, e con questo pastone si alzavano muri e pareti. Arrivai sulla piazza dove notai due botteghe e un’osteria tipo saloon. Entrai nell’osteria per avere informazioni sulla residenza di Josè Luis Blanco. Chiesi una bibita e guardai intorno rendendomi conto del deterioramento dell’ambiente. Ad un tavolo c’erano tre uomini che giocavano a domino, un altro era in piedi vicino al bancone che conversava con l’oste, un uomo grassoccio in canottiera. Chiesi l’indirizzo di Josè Luis e, sia l’uomo che l’oste, mi guardarono dall’alto in basso con aria interrogante, pensando forse che fossi uno di quei forestieri che vengono a curiosare nel paese degli stregoni. Non si sbagliavano, ero proprio uno di quelli, ma alla fine mi diedero proprio l’indicazione per arrivare alla casa che cercavo. Non mi fu difficile incontrarla per la bella pianta di bouganville di colore rosso che le stava davanti e la copriva in buona parte. L’uomo, piuttosto corto di statura, di pelle morena, stava sulla porta di casa, dietro di lui una donna di mezza età spingeva la testa in avanti come per sentire meglio ciò che avrei detto. Parve mi stessero aspettando, come se avessero avuto un segnale telepatico o avesse funzionato il tam tam dando avviso della mia presenza. Lui mi scrutava con curiosità e diffidenza allo stesso tempo. Quando gli dissi che mi mandava Julian Gonzalez sparì dalla sua faccia la tensione accumulata pensando che fossi un poliziotto in quanto, l’attività che esercitava, era illegale. Però le forze dell’ordine pubblico erano molto tolleranti. Solo nel caso in cui questi maghi commettessero frodi che trascendessero certi confini, e avessero causato un certo scalpore, passavano qualche giorno di reclusione nella jefatura di polizia (gendarmeria). Il nome di Julian Gonzalez fece colpo poiché il padre era un grande proprietario terriero della zona quindi, direttamente o indirettamente, dava lavoro a molta gente, beneficiando l’economia del luogo così da renderlo il “Don” poderoso di Virongo. Quando stavo per varcare la soglia della casa mi sentii fuori posto, disorientato, provando un senso di ripugnanza per questo tipo di ciarlataneria. Visto l’ermetismo col quale operava Josè, così di primo acchito non avrei ottenuto che un netto rifiuto al mio proposito di fotografare la funzione, inoltre non c’era nessun altro in quel momento che servisse da soggetto. Velocemente pensai di dimostrare che ero lì per essere io il….paziente bisognoso di scongiuro anche se questo esulava completamente il motivo iniziale dei miei piani.
Inventai il problema iella, male andamento degli affari, del negozio e tutto questo si rifletteva nell’economia familiare. Creai un’atmosfera credibile che giustificasse la mia presenza, chiedendo il suo intervento. Nell’esporre i miei malanni pare sia stato sufficientemente convincente. L’uomo era rientrato nella normalità dopo lo sguardo interrogante e la diffidenza iniziale. La casetta di bajareque con pavimento di terra battuta, perciò che mi era dato vedere, era composta di due stanze e uno sgabuzzino. Una delle due stanze, quella con la porta di entrata, era la più grande, era un ambiente povero, pochi mobili di legno, un tavolo e quattro sedie di fattura piuttosto grossolana; in un angolo trovava posto un altarino sul quale spiccavano vari moccoli di candele accesi la cui luce tremolante illuminava delle statuette in gesso di personaggi conosciuti e venerati dalle masse popolari, come il negro Felipe, il negro Miguel, il dottor Gregorio Hernandez e non mancava la “reina” Maria Lonza Deità indigena, personaggio mitico, leggendario nella cultura popolare venezuelana e per lei sola dovrebbe scriversi un capitolo a parte che scoprirebbe una saga bella e interessante.
Non mancavano neanche immagini cattoliche, cristiane. Tra l’altro spiccavano il cuore di Gesù, la Vergine Maria e altri santi. Questa mescolanza di immagini pagane e cristiane è frequente nelle loro manifestazioni di fede e per usarle in tali funzioni stregoniche.
Sul tavolo addossato ad una parete si notavano un mazzo di frasche, quattro candele, dei fiammiferi e un vasetto contenente una sostanza granulare che non mi fu possibile identificare. La donna stava rannicchiata in un angolo della casa con gli occhietti vispi e attenta a tutto ciò che succedeva intorno. Poi mi resi conto che era l’assistente di Brujo. L’uomo mi disse di togliermi la camicia e la canottiera. Si avvicinò all’altarino e accese due moccoli di candela, sembrava raccogliersi in se stesso, concentrandosi, preparandosi al rito. Quando si voltò e venne verso di me il suo volto era rilassato, era scomparsa in lui l’espressione interrogante e scrutatrice del momento in cui apparvi sulla porta di casa sua. Mi accettò per la raccomandazione di Julian ma per conto suo, sono certo, che nelle sue conclusioni sul mio riguardo dedusse di avere davanti uno che cercava l’avventura, più che lo scongiuro a dei supposti malanni. Era logico che così pensasse. Ero bianco, giovane e inoltre straniero. Era inconsueto che un soggetto con queste caratteristiche cercasse il suo intervento. Raccolse il mazzo di frasche, mi si avvicinò e incominciò a spazzolarmi dalla testa ai piedi girandomi attorno. Mentre mi frascheggiava gesticolava e mormorava frasi incomprensibili ma entro queste potei distinguere dei nomi come Javè Babaloo e anche Gesù e Maria. I primi due sono divinità pagane appartenenti all’esoterismo africano, usate dai “santeros” nel loro culto indiscreto e superstizioso verso i santi, molto diffuso a Cuba e in altre isole dei Carabi.
La donna a questo punto della funzione si avvicinò a Josè e gli diede un grosso sigaro acceso che si mise a fumare soffiandomi il fumo su tutto il corpo. Poi stese una stuoia sul pavimento ma, prima di farmi stendere, l’uomo si avvicinò al tavolo e bevve dalla bottiglia qualche sorsata, poi mi si avvicinò e mi spruzzò in faccia e sul torace ciò che mi parve fosse del ron (rum) o caňa blanca (un distillato della canna da zucchero di infima qualità). Il peggio fu quella….sputata in faccia che non mi aspettavo mista all’alito del fumo che produsse un odore nauseabondo rimanendo inorridito, schifato. La mia prima reazione fu quella di uscire correndo da quel rancno (casupola) ma dovetti contenermi, non senza uno sforzo di volontà. Chiusi gli occhi e respirai profondamente mentre l’uomo mi diceva di stendermi sulla stuoia. Lo feci mentre la donna metteva al suolo due candele accese ai lati delle caviglie mentre Josè seguiva spazzolandomi con le frasche borbottando e gesticolando. Dentro quel buco faceva caldo, molto caldo. L’uomo sudava e operava quasi sempre con gli occhi chiusi, prendendo posizione ai miei quattro lati. La donna ad un certo punto accese il contenuto del vasetto e nella stanza si propagò del fumo che odorava di incenso misto a candela. Alla fine con questo mi sembrò che il rito volgesse al termine quando l’uomo si avvicinò all’altarino, chinò la testa sul petto restando qualche minuto in quella posizione , poi ritornò verso di me dicendomi che la seduta era terminata, che potevo rimettermi la camicia.
Chiesi di lavarmi poiché la spruzzata e il fumo mi si erano appiccicati alla pelle e ciò mi causava la nausea. La donna mi indicò un’uscita opposta all’entrata che dava ad un patio (cortiletto) dove trovai un lavello di cemento e a lato un secchio d’acqua. Mi lavai, pagai i 20 bolivares dell’onorario, equivalenti a quel tempo ad una giornata di lavoro di un operaio qualificato, al cambio in lire italiane a quarantamila lire. Josè Luis Blanco mi disse che da quel momento le cose sarebbero migliorate. Certo che miglioreranno, fuori di li riprendendo il mio cammino tutto sarà rose e fiori dopo il broglio in cui mi ero cacciato e che avevo dovuto sopportare. Prima di uscire per riprendere il mio ritorno a Caracas gli chiesi se avessi potuto tornare con un cliente…paziente e fare delle fotografie di tutta la funzione. Mi guardò sorpreso della proposta che gli feci e si negò decisamente anche offrendogli del denaro extra in compenso. Aveva paura della polizia, non tanto per i tre o quattro giorni di reclusione nella “jefatura” per esercitare un’attività illegale ma dell’estrorsione da parte di qualche agente che poi non sarebbe finita mai più.
Nella rete “de los Brujos”, di tanto in tanto, ci casca qualche donnetta che, poco a poco, viene ripulita dei suoi risparmi restando con il borsellino vuoto. Da questo la vigilanza e il controllo di questa gente da parte della polizia locale. Solo quando le frodi trascendono i confini locali possono dar luogo a castighi pesanti. Normalmente nel campo di queste macchinazioni esoteriche c’è una grande tolleranza e le ragioni di ciò sono molte. Meglio lasciar correre le acque e non intorbidirle!!!
Alla fine fallirono tutte le mie proposte, anche la promessa di non pubblicarle nel Venezuela. Non mi rimase che salutare Josè Luis Blanco, montare in macchina e riprendere la via del ritorno a Caracas. Mentre stavo lasciando indietro le ultime case di Virongo dovetti frenare bruscamente per lasciar attraversare la strada ad un grosso serpente boa che lentamente passava dall’altro lato. Sapevo che questa, oltre ad essere una zona di stregoni, è anche una zona di serpenti ma non pensavo di vederne uno attraversarmi la strada. Era un animale grande non meno di tre o quattro metri e mi è sembrato non finisse mai di passare. Ero già un po’ alterato alla fine della funzione e questo incontro accentuò la tensione che a poco a poco però svanì avvicinandomi a casa mia. Durante il percorso pensai all’avventura vissuta restandomi qualcosa di positivo: aver tentato di documentare qualcosa di quel mondo della magia nera, dell’occultismo che tutti abbiamo una certa avidità di conoscere. Associai  questo fatto coincidente ad un reportage che realizzammo io e il padrone dell’agenzia di Milano dove lavoravo, a Como e Bormio, che fu pubblicato con il titolo “Le vie del tabacco” e lavorammo nella stessa atmosfera di riservatezza, segretezza e mistero. Si trattava del contrabbando, principalmente di sigarette, e altre cose dalla Svizzera. Anche qui con formale promessa di non fotografare volti e altri indizi che potessero compromettere luoghi e persone involucrati in questo lavoro illegale che allora si svolgeva in ogni zona di confine.
Per concludere devo manifestare la mia sorpresa scoprendo, al mio rientro in Italia, ed è anche pubblicamente nota, la presenza di una grande quantità di maghi anche qui, che operano con le stesse funzioni di Josè Luis Blanco e forse conoscono anche loro la magia nera, oltre a quella bianca, per raggirare il prossimo credulone che capita loro nella rete.

19 de noviembre de 2011

C’E’ POSTA PER ME?


Ettore, col suo peculiare modo di camminare, avanzava sulla scorciatoia, stradicciola che conduceva alla nostra borgata, muovendosi con un’andatura caratteristica che lasciava indovinare che avesse dei calli ai piedi. Era il nostro postino. Era un omone grande e bonaccione, prossimo ad essere pensionato. Fu il primo portalettere che conobbi da bambino e ancora oggi, a distanza di tempo, la sua immagine col chepì consunto e il borsone di cuoio contenente la posta, nel mio ricordo, mi appare ben chiara e dettagliata.
All’ora consueta che arrivava alla nostra borgata si manifestava, tacitamente, fra le gente, la psicosi, la smania dell’attesa del postino, e questa attitudine si spiegava avendo in casa un familiare emigrato che poteva aver mandato una lettera da terre lontane. La posta era quasi l’unico mezzo di comunicazione a distanza, anche se già esisteva il telefono, però questo era un lusso che non potevamo permetterci, e tanto meno di tenerlo in casa. Quindi solo il servizio postale permetteva una comunicazione normale con i nostri cari lontani. Chi non faceva mistero della sua ansietà per ricevere posta era la signora Amalia che immancabilmente, seduta su un ripiano al margine della strada, aspettava il postino che da un momento all’altro poteva apparire in fondo alla stradetta e non lo lasciava avvicinarsi sufficientemente, chiedendogli ad alta voce se avesse posta per lei.
Amalia era una giovane sposa con il marito emigrato in Francia e, da quando era partito, già da qualche mese, ancora di lui non era giunta la prima lettera che lei aspettava trepidamente giorno dopo giorno, e la sua smania cresceva con il passar del tempo, accentuandosi dopo che la lingualunga, vicina di casa, le aveva scaldato la testa insinuandole che molti emigrati italiani erano caduti nella rete dello charme delle donne francesi. Per sua consolazione la lettera tanto attesa un giorno arrivò, e Amalia corse a sventolarla in faccia alla vicina pettegola, così per chiuderle il becco.
Ettore, con o senza posta per noi, arrivava sempre a casa nostra avendo qui un appuntamento con un buon bicchiere di vino che mia madre gli serviva sul tavolo in cucina e, mentre lo sorseggiava, conversava con la mamma e io sbirciavo il contenuto del suo borsone che aveva posto su una sedia. Guardavo superficialmente nei tre scomparti della borsa le lettere di colori diversi sapendo, per sentito dire, che quelle rosa portavano messaggi d’amore, le color paglia contenevano corrispondenza di enti ufficiali o commerciali, e ognuna con messaggi e argomenti diversi. Notizie importanti o banali, scritti amorosi, affari, saluti, alcune lettere portavano gioia altre tristezza, certe esprimevano frasi appassionate dettate da sentimenti cha a tu per tu non troverebbero modo facile di essere dette così dettagliate.
Dentro quelle buste l’immaginazione suggeriva ci fosse tutto un mondo di aspetti diversi. Alcune erano scritte con bella calligrafia lasciando supporre che anche il messaggio all’interno venisse da gente colta, espresso in forma corretta fedele ai canoni letterari, e non di rado con una certa ampollosità, stile molto usato in tempi passati nelle relazioni epistolari.
Altre evidenziavano la loro provenienza da persone di poca cultura, con l’indirizzo iniziato diritto che andava poi torcendosi verso il basso dovendo girare la busta per tentare di leggerlo, cosa ardua per il postino che doveva recapitare la missiva.
Non erano poche quelle che bisognava interpretarle più che leggerle, lasciando immaginare che solo il destinatario, impratichito della calligrafia, poteva districare il testo dell’interno. Questo era conseguenza di chi aveva frequentato, però non era passato, dalla seconda o terza elementare, perché in casa erano più necessarie le loro braccia che una mente colta. Comunque, prescindendo dalla calligrafia, ricevere una lettera sempre motiva certe vibrazioni che si trasformano in emozioni diverse leggendola. Emozioni dolci, tenere se chi ti scrive è una persona amata, indifferenza o poco interesse per i messaggi pubblicitari, con una smorfia se includono fatture per il pagamento agli enti che ci forniscono i vari servizi per la casa, e lo stesso per il pagamento delle tasse. Così sempre quando ci arriva una lettera per le mani. Seguendo con i valori della parola scritta, alla “penna” tocca il privilegio della scrittura eseguita manualmente anche se attualmente in disuso, in buona parte marginata da mezzi e tecnologie moderne usata tutt’al più per redigere minute annotazioni o fogli marginali di relativa importanza, e anche i famosi manoscritti notarili già non sono tali a meno che, in taluni casi, non sia necessaria l’autenticità grafologica.
Nulla potrà togliere alla penna di essere stata, e di esserlo per sempre, la regina della scrittura a mano, partendo dalla piuma d’oca e sommando tutte le invenzioni e forme di scrittura che a questa sono succedute, sarà sempre la penna e la scrittura a mano a trasmettere sensazioni, emozioni, e riflettere lineamenti e caratteristiche della personalità dello scrivente. Inoltre manifesta intimità, calore, confidenza più che altri mezzi di comunicazione a distanza, che risultano più freddi e impersonali, anche se più pratici e immediati. Retrocedendo di un paio di generazioni è doveroso ricordare quel pennino d’acciaio montato sull’asticella che serviva da impugnatura. Pennino con cui, insicuri, abbiamo tracciato le prime aste e man mano abbiamo preso confidenza riempiendo pagine intere con una sola parola per impratichirci nella scrittura. Il pennino aveva il suo compagno inseparabile, il calamaio, e quando per intingere l’inchiostro lo si affondava più del necessario, lasciava cadere una goccia che formava una bella macchia sul foglio bianco, la pagina già scritta. Erano guai anche quando il famoso pennino si conficcava nella carta e la macchia prendeva la forma di uno scoppio di granata e ciò diminuiva la qualificazione che il maestro marcava al margine della pagina.
Oggi i nostri figli o nipoti usano la penna a sfera e questi incidenti non succedono più.
Quanti pensieri si possono far scorrere sulla punta della penna, forse più di quanti se ne possano esternare con la parola, e lo scritto resta indelebile segnato sul foglio, mentre la parola può scivolare nell’aria e in buona parte disperdersi o dimenticarsi.
La comunicazione scritta destinata ad andare lontano è la posta, incaricata di recapitarla, e oltre alla corrispondenza, alla lettera, ci porta pacchi, denaro e molte altre cose ancora. Piacevole era il momento del ricevere l’assicurata con il vaglia incluso dal familiare lontano che provvedeva al mantenimento della famiglia fino all’arrivo del prossimo destinato allo stesso fine. Quanta gioia pervadeva l’emigrante quando in terre straniere riceveva una lettera dei suoi cari che, oltre alle notizie personali, includeva quel filo spirituale che lo teneva attaccato alla grande patria e al luogo natio mantenendo placato anche il morso della nostalgia. E quando c’erano di mezzo le passioni amorose quando arrivava la lettera attesa quanta felicità e in caso contrario se non c’era posta per lui o lei, quanta ansietà pativa l’innamorato. Ma il valore incomparabile della posta era quando la lettera poteva giungere nella mani del soldato sul fronte di guerra, ricevendola con un nodo alla gola tra i fischi delle pallottole e il rombo del cannone. Anche in questo caso un tenue filo congiungeva ricordi e affetti con l’emozione raddoppiata dalla precaria certezza di poter uscire con vita dal conflitto che incombeva con tanti pericoli minacciosi sulla sopravvivenza dei combattenti. Così il soldato seduto su un sasso o accovacciato nella trincea leggeva la lettera preso dal magone guardando la fotografia della fidanzata o della moglie con il figliolo nato dopo la sua partenza che non aveva ancora potuto tenere tra le braccia.
Benché l’idea di far nascere questo racconto era di esaltare solo il piacere di ricevere posta, lettere, notizie, è impossibile dissociare il servizio postale, veicolo che ci rimette nelle nostre mani, al nostro domicilio, i messaggi a noi indirizzati; perciò un po’ di storia delle poste si intreccia col racconto ed è un atto di giustizia non tralasciare di citare questo imprescindibile servizio sociale. Ogni giorno per vie e viottoli di ogni dove vediamo e incrociamo i postini nel loro lavoro, recapitando lettere ai destinatari. Vanno a piedi o motorizzati, facilmente individuabili con le loro vistose uniformi giallo-blu prestando il servizio alla comunità.
Questi incontri fanno risalire il pensiero agli esordi, agli inizi del servizio postale quando fu creato cento cinquant’anni fa contemporaneamente alla nascita dell’unità d’Italia nel 1861.
Una certa forma di comunicazione epistolare la si attribuisce molto prima ai romani, alle alte sfere imperiali e militari, mobilizzandosi, gli addetti al servizio, a piedi o a cavallo con i rotoli di pergamena.
Poi via via passando il tempo, attraverso i secoli, come tutte le cose, la comunicazione a distanza evolse arrivando al tempo attuale, ai giorni nostri, operando con tecnologie e mezzi moderni.
Si sa che l’uomo da quando esiste sulla terra ha sentito la necessità, il bisogno di comunicare a distanza. Prima si sarà fatto capire a gridi, poi scoprendo il fuoco, con segnali di fumo, o con il tam tam usando i tamburi. In qualche parte del mondo esistono ancora popolazioni primitive, non involucrate nella spinta del progresso, che usano tali modi di comunicazione e resteranno così fin quando non arriverà tra loro un malandro “vucomprà” a barattare telefonini per pelli di serpenti e di coccodrilli.
Per far giungere la posta ai destinatari furono usati molti mezzi. Agli inizi del servizio fu portata a piedi, a cavallo, in località di montagna, con la slitta, gli sci o a dorso di un mulo. Poi arrivò il barroccino la diligenza con ai lati delle porte, lo scudo delle “regie poste” e i corrieri di questa dovevano viaggiare armati per difendersi qualora alcune strade fossero infestate da briganti e malfattori. Seguirono il trasporto ferroviario, il piroscafo e l’aereo. Già nell’attualità altri mezzi si aggiunsero alla comunicazione a distanza tra le quali l’ultima arrivata è “l’e. mail”, posta elettronica a mezzo computer, dando questo sistema la massima capillarità al servizio.
La “posta” deve il suo nome al luogo dove la diligenza si fermava per il cambio dei cavalli e il ristoro dei passeggeri detta “stazione di posta” e tali fermate erano distanti circa venti chilometri una dall’altra. E’ da notare che con l’evoluzione dei servizi anche i postini che fin dai primi tempi usarono uniformi, si modernizzarono anche queste passando per diverse fogge sempre molto eleganti fino alle attuali fosforescenti e molto appariscenti.
Dopo aver risaltato più che latro il lato pratico e utilitario della posta merita un riferimento anche una faccetta dal carattere sentimentale che fa risaltare la cartolina postale con immagini intinte nell’idealismo romantico della belle epoque, rappresentando principalmente l’amore in tutte le sue espressioni  permesse dalla decenza e dalla morale. Furoreggiarono fino alla decade degli anno trenta del secolo scorso, svanirono, poi scomparsero, con la generazione dei nostri genitori non solo vestivano un’aureola romantica ma era corrente che il borsone del postino emanasse un profumino di coty, chanel o semplicemente di lavanda o acqua di rose dovuto a lettere amorose, a volte contenenti fiori dissecati, ciocche di capelli, quadrifogli o altre cosette simboleggiando o relazionando con l’amore. E’ possibile che persone cui piace conservare la corrispondenza di qualche vecchio familiare, rovistando qualche plico ingiallito dal tempo, trovino delle immagini, fogli e buste che racconteranno la storia completa di tutta un’epoca confermata da scritti sbiaditi e francobolli raffiguranti personaggi anche loro passati alla storia, cimeli giunti per posta e forse recapitati da Ettore quando era un giovanotto agli inizi della sua carriera.

18 de noviembre de 2011

DIVENTARE NONNO E CONTASTORIE


Sapevo che da un momento all’altro dovevo ricevere quella chiamata e stavo in attesa che il telefono squillasse. Alla fine…….il driiin si fece sentire. Sollevai la cornetta e la voce di mia moglie, presa dall’emozione, mi annunciò: “Sei diventato nonno di una bella bambina!!!”Nonno…..?!Sul momento a sentirmi attribuire l’appellativo di nonno mi sentii un po’ disorientato pur essendo conscio che quella comunicazione doveva arrivare; nonostante mi colse impreparato ad accettare la realtà di essere, da quel momento, entrato nel rango dei nonni. Nella mia intimità, tacitamente, associavo il personaggio col sinonimo di vecchiaia, ma mi ripresi subito, consolandomi deducendo che a sessant’anni, età che avevo in quel momento, non mi sentivo, e resistevo a considerarmi vecchio, tuttal’più attempato, maturo, ma non proprio vecchio.
Con queste considerazioni mulinandomi nella mente, mi rasserenai e mi diressi verso la clinica a felicitarmi con la nuora, a farle omaggio di un mazzo di fiori, e a conoscere la neonata.
La bambina stava nella culla in un padiglione separato dai visitatori da una vetrata. Vedendo quella creatura che pareva mi stesse guardando fisso, fui preso da un’ondata di tenerezza e nello stesso tempo orgoglioso della mia recente condizione di nonno scomparendo ogni reticenza verso questo nuovo ruolo che venivo a rappresentare.
Al mio fianco, guardando la nuova arrivata, c’era lo zio, fratello di mia nuora. Poiché la bambina stava guardando, così ci parve, nella nostra direzione, ci contendevamo gelosamente quello sguardo, come fosse indirizzato ad ognuno di noi in particolare. Il buon senso prevalse, e ci accordammo, deducendo che con una sola ora di vita non poteva distinguere ne nonni ne zii. Chissà cos’era che attirava l’attenzione della creatura in quel luogo di questo mondo dove era appena arrivata. Con la nascita della nipotina nacque un nuovo motivo di stimolo che destava nuovi sentimenti di affetto e tenerezza più sereni e tranquilli di quelli provati alla nascita dei propri figli, essendo allora molto giovane, tutte le espressioni affettive erano più focose e appassionate. Con il ruolo di nonno non si acquisiscono solo nuove manifestazioni affettive ma anche qualche prestazione o collaborazione famigliare che permette a giovani genitori di seguire le proprie occupazioni professionali. Ciò richiama dover rinnovare le pratiche usate nel trattare i figli neonati, così ti trovi, di tanto in tanto, con i nipotini in braccio che grati del trastullo ti ricompensano con un regalino tiepido e umido sulla manica della camicia e sui pantaloni. Più grandicelli all’ora di coricarsi mi chiedevano di raccontargli una favola. Questo era un momeneto di pace e tenerezza, era il momento che si ammansivano dopo una giornata di birichinate e di irrequietezza come solo i bambini la vivono, tenendoci sempre attenti e vigilanti. Perciò questo era anche il momento che preannunciava il riposo per loro e per noi. Le poche favole che sapevo erano quelle che più o meno tutti sanno: Pinocchio, Biancaneve, Cenerentola e qualche altra. Il mio repertorio era limitato, e spesso mi sentivo dire: “Ma nonno quella me l’hai raccontata ieri sera!!!” E non avendo altra scelta, poiché tutte le sapevano, molte per averle ascoltate e viste alla televisione, decisi di inventare storie ricorrendo all’immaginazione e alla fantasia. Così è nata quella dell’uomo forzuto che con uno starnuto sradicava gli alberi della foresta…altra, dei due fratellini che si persero nel bosco e dovettero passare la notte nella cavità di un vecchio e grosso albero intimoriti udendo tanti strani e paurosi rumori che di notte si sentono in quei luoghi tenebrosi: l’ululato del lupo, il lugubre canto della civetta, il grugnire dell’orso che passò vicino a loro con i suoi passi striscianti causando tra le foglie secche del suolo un scioo, scioo che li fece rabbrividire. Altra, il matrimonio della pulce col pidocchio che come padrino scelsero il topo e per madrina la gatta e, al finale della festa, tutti ebbri per la grappa e il vino la madrina si mangiò il padrino. Il racconto non lo lasciavano scorrere e seguire continuo ma spesso lo interrompevano con domande per mettere in imbarazzo la mente più sveglia per dar loro delle risposte credibili e coerenti. Oggi che tutti i nipoti sono già adulti mi ricordano certi passaggi di quei racconti che più li impressionarono come: l’uomo forzuto che dovette lottare con un mago di grandi poteri che si era invaghito della sua innamorata….il scioo scioo dei passi dell’orso. Allora nella foga di inventare situazioni e personaggi, non mi rendevo conto che drammatizzavo un po’ troppo, tanto che invece di predisporli al sonno, succedeva il contrario e questo tardava ad arrivare. Quando mi rendevo conto che la loro mente infantile non era ancora avvezza alle forti impressioni e apparivano turbati, ricorrevo alla fata buona con poteri illimitati che castigava i cattivi e premiava i buoni o a storie di principi e principesse di regni fantastici, soavizzando così le emozioni. Di tanto in tanto in queste sedute fiabesche intenzionate a conciliare il sonno, succedeva che questo mi coglieva prima che loro e al mattino seguente si burlavano e si vantavano di aver addormentato il nonno. Queste sono le cose graziose che succedono assieme ad altre che non lo sono. Quando c’è un nonno in famiglia non si può quantificare il valore della sua presenza, la carica affettiva che trasmette, e se le sue condizioni di salute sono ancora buone, tanto da rendersi utile, lo farà con la stessa responsabilità dei genitori nel farsi carico dei nipoti. Mi riferisco al nonno essendo questa la mia condizione. Ovviamente la nonna non è di meno nel dare le sue prestazioni ai nipotini e come donna lo fa con qualche caratteristica diversa, propria della sua condizione. Unendo questi due personaggi in seno alla famiglia, notiamo che il compromesso ha un solo fine, amare e dedicarsi incondizionatamente ai nipoti. Come accennai non tutto, e sempre, i rapporti sono grazia e miele, alle volte si creano situazioni che comportano qualche screzio, dovuto come è logico, a differenze createsi più che altro dalle diverse posizioni generazionali. I nonni non possono attualizzarsi in molte cose e i nipoti no ci pensano due volte per escludere la loro partecipazione nei loro problemi o altre circostanze dove potrebbero apportare un sano e savio consiglio. Certe situazioni conflittuali si danno con più frequenza nella scalata dall’adolescenza all’età maggiore. Epoca che provoca i loro atteggiamenti smodati, anche se privi di malintenzione, dettati da quella sfacciata spontaneità e sincerità radicata nei loro impulsi giovanili. I nonni incassano senza dare alcun segno di contrarietà, anzi sul loro volto si nota un’espressione di dolce compatimento sperando nel momento di poter dimostrare che nel loro bagaglio di esperienze c’è ancora molto di valido per orientare i nipoti con valori che li favoriscano verso una convivenza serena e armoniosa in seno alla famiglia.
Una dimostrazione di mortificante comportamento nei miei riguardi l’ho avuta un giorno dal mio nipotino di una decina d’anni, corta età, però già esperto nel destreggiarsi con il computer. Mi avvicinai mentre stava operando con l’apparato e gli dissi di lasciarmi provare a cercare dei dati, in sua presenza e direzione; mi rispose con aria risaputa: “No nonno, tu non capisci e non sai niente di queste cose…..”
Tale risposta non lasciò risentimento alcuno ma solo un pungente dissapore. Come ricompensa rasserenante, mentre sto scrivendo queste righe, driiin….suona il telefono….è la “bambina” che mi fece nonno trent’anni fa. Mi chiama dall’Argentina dove nell’università di Buenos Aires è impegnata in un master, dopo essersi laureata in sociologia, ed è proprio lei la nipote, quella che più emozionavano i miei racconti che oggi mi sta rievocando…il scioo scioo dei passi dell’orso sulle foglie secche sul suolo del bosco. Sembra ieri, un soffio di tempo, invece sono passati già trent’anni. In questo periodo molti cambi sono avvenuti nel nostro vivere quotidiano e così anche nei rapporti con i nostri giovani. In ogni epoca nella convivenza si è verificato l’inevitabile conflitto generazionale ma fin dal secolo scorso questo fenomeno si è accentuato e accelerato dovuto al ritmo evolutivo progressista con il quale questo succede, riflettendosi in ogni ambito del nostro vivere. Quindi i nostri giovani devono seguire tale ritmo loro prerogativa che impone un nuovo modo di vivere corrispondendo a nuove maniere di manifestarlo e questa dinamica modifica il comportamento. Considerando l’età che ha compromesso le nostre facoltà, è difficile seguire ed intendere gli avvenimenti che si susseguono attorno a noi imponendoci nuovi valori e cambiamenti nella condotta umana, augurandoci che questi non raffreddino gli affetti, il rispetto, la considerazione. Ci rendiamo conto che i nostri giovani vivono il mondo attuale complesso e mutevole, che obbedisce a canoni e principi concettuali diversi da quelli che hanno retto la nostra esistenza. Hanno maggiori disponibilità economiche e benessere, un punto a favore rispetto a non molto tempo fa quando penurie e ristrettezze opprimevano la maggior parte della popolazione rendendo difficile ogni prospettiva.
In queste linee ho tentato di dare una fisionomia alla mia immagine di nonno, restando inteso che tutte le considerazioni e riflessioni sono personali non intenzionate a generalizzare. Comunque stando alle evidenze, voglio aggiungere che fra noi anziani non manca chi pretende di suggerire, e alle volte imporre, ai giovani di questo tempo ideologie e teorie già obsolete, valendosi dell’autorità morale che può dare l’età, al posto di soffermarci a comprendere la realtà del mondo attuale che determina il comportamento dei nostri giovani. Con un atteggiamento meno autoritario eviterebbero conflitti e ribellioni in seno al nucleo familiare.
Al fine con una buona comunicazione intrinseca, e buona volontà da ambo le parti, sono convinto che si possa ancora trasmettere loro certi valori frutto e patrimonio delle nostre esperienze, risulatandone sicuramente una convivenza più armonica e serena, cosa che tutti desideriamo nei rapporto con i nostri giovani.

17 de noviembre de 2011

IL CAVALLINO DI CARTAPESTA


Mia madre, di tanto in tanto, mi metteva il vestitino della festa per andare al paese vicino, a piedi, a fare visita ad una vecchia zia. Zia che io cordialmente detestavo per il fatto che lei cuciva, e mi faceva pantaloncini con una sola tasca, la destra, poiché sosteneva che i bambini non dovevano tenere le mani in tasca. Ancora lei, diceva, per evitare le brutte abitudini, quindi bastava una tasca sola, quella per metterci il fazzoletto. Io ne avrei volute non una, ma quattro, di tasche. Avevo tante cose da metterci dentro…..palline di vetro, una scatoletta con un povero grillo per dimostrare agli amici che non avevo paura a manipolare quell'insetto, sassolini bianchi e neri, la fionda, e chissà cosa mai avrei trovato ancora d’importante da infilare in quelle tasche. Però non fu caso che me ne facesse un’altra così che mi sentii per molti anni come un mutilato di qualcosa di importante. Da lì il mio risentimento. Un giorno, dopo la visita alla zia, sulla via del ritorno, prima di uscire dal paese, c’era un negozietto che dava sulla strada. In quel punto mia madre incontrò una signora, e mentre stavano conversando, senza un argomento preciso parlando, parlando e parlando, come fanno spesso le donne, io mi avvicinai alla umile vetrina e tra le diverse cose di poca importanza esposte spiccava un cavallino di cartapesta montato su una tavoletta di legno con quattro rotelline e un gancetto per attaccarci una cordicina. Sul cavallino si accentrò tutto il mio interesse e la mia fantasia infantile cavalcavo con lui per valli, campi e pianure infinite raccogliendo prodezze lungo il cammino. Stavo montando il mio Pegaso e cieli, mari e montagne non erano ostacolo alcuno per il mio fantastico volo. Mi sentivo libero e felice. Nel momento che stavo galoppando sul mio cavallino e vivendo le mie avventure, la voce di mia madre, che mi invitava a proseguire, mi distolse dal mio sogno. Con l’espressione supplicante le dissi di comprarmelo il cavallino, le dissi che costava poco, solo una lira, mi disse che non poteva, che non aveva la lira. Non capivo, non conoscevo allora il perché della mancanza di quella modica moneta nel borsellino di mia madre. Solo molto tempo dopo conobbi la realtà del perché non c’era in quel momento tale disponibilità. Riprendendo il cammino verso casa le mie lacrime lasciavano il loro segno, al mio passaggio, sulla strada polverosa. Con l’immagine fissa nella mia mente, e nel mio cuore, di quel cavallino dentro la vetrina, e io con il naso schiacciato sul vetro, con infantile golosità e l’espressione di rinuncia del bambino povero di fronte al giocattolo caro.

16 de noviembre de 2011

IL FANTASMA TIRASASSI


“Giacomino vuoi dirmi finalmente ciò che ti succede da un po’ di tempo a questa parte, cosa che ti si vede in faccia e non puoi più nascondere?” Con queste parole si rivolse a lui la madre, essendosi resa conto del cambio di suo figlio nel comportamento e nell’umore che non erano gli stessi del suo essere abituale. Era scontroso, di malumore e non si alimentava come di solito soleva fare, sereno e con buon appetito. La madre indagava il motivo di tale cambio in suo figlio con il modo amoroso che solo le mamme sanno fare in certi momenti con i figli. “Hai problemi sul lavoro, hai litigato con la Nina, la fidanzata, che cos’hai?” insisteva la madre. “Niente mamma, non succede niente né sul lavoro né con la Nina”. “Allora cosa passa in questi ultimi tempi nella tua vita che non ti si riconosce più nel tuo modo di fare, nel tuo comportamento. Ti senti male? Vuoi farti vedere da un medico?” “No! No! Non succede nulla, passerà” e con ciò usciva di casa lasciando senza chiarire quel suo comportamento anomalo. Aveva perso la sua baldanza, era pallido e dimagrito e ciò era motivo di preoccupazione per i suoi familiari. Giacomino, giovane venticinquenne, con la Nina faceva piani per sposarsi in breve tempo. Anche lei si era resa conto del deterioro fisico del fidanzato, del resto non aveva nulla da lamentare, il buon comportamento verso di lei era costante. La sera rientrato a casa dal lavoro si lavava, si metteva indumenti puliti, cenava e poi andava dalla fidanzata. Essendo corto il tragitto per raggiungere la casa di Nina quasi sempre calzava delle pantofole piane, così si sentiva più comodo che non con le scarpe. Percorreva la distanza su una strada inghiaiata e ritornava a casa già tardi, a notte fonda, nel silenzio totale predominante nelle notti dei paesi di campagna.
In questo tratto di strada erano sorti tutti i mali che Giacomino stava soffrendo. Sentiva, in quel tragitto, che qualcuno gli tirava sassi sulla schiena ma non vedeva ne sentiva la presenza di nessuno vicino a lui per spiegarsi il fenomeno. Invaso dalla paura si lasciò andare pensando a qualcosa di soprannaturale; a un  fantasma. Non trovava altra spiegazione e, più ci pensava, più scivolava in uno stato emozionale dal quale non riusciva a trovare una spiegazione, un’uscita razionale; inoltre il suo orgoglio non gli  permetteva di confessare ciò che gli stava succedendo che a poco a poco lo portava verso il panico. Gli effetti di questo stato d’animo non poteva nasconderli, dissimularlo, e dava luogo che i familiari pensassero che il suo equilibrio mentale potesse soccombere, e decisero per conto loro di scoprire la causa che affliggeva Giacomino e causava malessere e preoccupazione a tutti loro. Decisero di pedinare, con discrezione, i suoi passi e investigare i suoi contatti personali con amici, parenti e conoscenti. Sul posto di lavoro, nel calzaturificio, tutto si svolgeva con normalità, con le sue conoscenze e amicizie non c’erano screzi, cosicché il compito che si erano proposti non ebbe esito e si concluse negativamente. La soluzione si presentò nel modo più strano e impensabile. Ogni sera Giacomino andava dalla fidanzata e il fratello maggiore Gigi volle, di nascosto, senza far notare la sua presenza, seguirlo e avvicinarsi, per capire se tra i due esistesse veramente buona armonia. Gli bastò per capire che le cose andavano bene e, stando a discreta distanza, vedere che Nina, aprendogli la porta, gli si avvicinò affettuosamente dandogli il bacio di benarrivato.
Ritornò allo stesso posto all’ora che Giacomino faceva ritorno a casa e, favorito da un chiaro di luna molto opportuno, vide il fratello accompagnato dalla ragazza e, al momento del commiato, si baciarono come ci si può aspettare in questa circostanza. Quindi tutto normale. Seguì il fratello nel tratto di strada che lo separava dalla casa, lo seguì sul prato che costeggiava la strada a prudente distanza, affinché non si accorgesse della sua presenza. Giacomino uscì dal cortile dell’amata e si incamminò lungo la strada di ghiaia circospetto e a passi lenti, poi prese a camminare con andatura normale. Il fratello seguendolo lo guardava, se nonché ad un tratto Giacomino si fermò, si girò, si guardò i talloni e scoppiò in uno scroscio di risa fragoroso e sostenuto. Gigi fu preso di soprassalto da quelle risa e pensò che davvero fosse diventato matto e che la pazzia si fosse dichiarata in quel momento. Mentre Giacomino si sganasciava dalle risa sfogandosi così dello stato ansioso, dall’oppressione che sopportava da un tempo a questa parte, si sorprese della presenza del fratello ma, nello stesso tempo, fu contento di potergli svelare il mistero dei sassi che tutte le sere gli battevano sulla schiena tornando a casa dopo la consueta visita a Nina e che fino ad ora non era riuscito a chiarire tale mistero, tanto d’averlo indotto a pensare che fosse opera di un’anima vagante, di un fantasma, e per quanto si tormentasse la mente non trovava spiegazione al fenomeno che aveva minato la sua salute e i buoni rapporti con  i suoi cari. Il suo silenzio e il non voler parlare con la sua gente si doveva a cosa avrebbero pensato se avesse detto loro che un fantasma gli tirava sassi nella schiena….Avrebbero riso e pensato che qualcosa succedeva nella sua mente, anche se a quei tempi la gente credeva in fantasmi e apparizioni più che nei tempi attuali. Ah! Però quella sera aveva scoperto e si era svelato il mistero dei sassi. Era veramente ridicolo e lui rideva al fine avendo scoperto che i sassi erano lanciati dalle sue stesse pantofole!!! Ad ogni passo qualche sassolino si adagiava sullo spazio che restava tra il tallone e la fine della pantofola, e al dare il passo, questi venivano catapultati sulla sua schiena.
Giacomino rientrò nella normalità dopo l’avventura finalmente conclusasi.
Questa storia è vera, successe a principio del secolo scorso, quando le notti, ripeto, erano popolate di fantasmi, streghe e apparizioni frutto di una fantasia malata.
L’esperienza di Giacomino, che dovuto alla sua attitudine, si fece dramma per lui e i suoi cari, fu causa sia dei tempi che della debolezza dello spirito.
Da questo caso si può trarre un insegnamento dal quale deriva un ragionamento. Quando ci si trova assillati da un frangente, un’ossessione che la nostra mente non riesce a risolvere, al contrario più ci pensi e più sprofondi nel problema. Dovremmo sforzarci ed affrontare la paura, le inibizioni, i complessi che ci impediscono di comunicare, di rivolgerci a persone che stimiamo e potrebbero darci un aiuto, un consiglio per risolvere il nostro conflitto. Il concorso di più menti, più idee, portano alla soluzione del problema.

15 de noviembre de 2011

IL MARCO POLO DI PINCAN


La conseguence de crisi finanziarie dal 1929 ha obleat la me famêe a cambiâ ciase e pais. Di San Pieri di Ruvigne i sin mudas a Pincan al Tiliment. La neste gnove residence a ere une da les tre ciases poiades su le cueste de culine dal cisciel. Le neste famêe a ere formade di tre persones, pal moment, il rest al ere vie pal mont. Che pui visine a no a ere une famêe numerose e che ate a ere composte di cinc persones tra les quales a l’ere un veciu cal veve nom Filip, Filip Cruciat, e a mi, frut di siet ains, chest’om a mi causave une vore di sogezion. Al ere un om alt vistit simpri di scur e quant’che ogni tant al iscive di ciase al usave une mantelline nere boutade miege par davour de schene e un ciapiel neri, cusi che a i restavin scuviers dome i voi tra il bavar e l’ale dal ciapiel. Voi gris celesc di un sguardo viv e sever cal bastave par definì la so personalitat. A nol leve mai lontan de so ciase, al rivave fin sunti une place visine, a si fermave cialant les montagnes davour di Glemone, ma i soi sicur che il so penseir al leve une vore pui lontan, forsi in Americhe, Germanie, France, Romanie, Angherie, Rusie dulà che al lavorat di scarpelin, e pe so bravure al faseve il capomastro su la Transiberiane costruint puins in piere e ates operes di gran impegno, e par sei stat simpri un “trottamondo” lu clamavin il “Marco Polo di Pincan”.
Quant che io i lu hai conosut al ere veciu e soffrent di un brut mal che lu ha ciolt di chest mont poc timp dopo. Une anedote ca lu riguarde a è, che une sere, me mari a mi ha dite va a ciase di Filip e disi a Argie, la malarie, che ti dei un in di ai, ca mi mancie par cuncia el lidric. Voi e i dis a le femine se mi podeve da un in di ai. Il veciu cal scoltave sentat sul so ciadreon int’un cianton visin dal fogolar al’ha capit chi ves domandat un in di alc…Al clame visin la malarie e i fedele; cheste va ju in cantine e a torne su cun doi gran vues di purcit e mi dis: “Ciape” e io i ripet che i volevi un poc di ai. Alore il veciu a i dis: “Dai ancie chel”. Poc considerant che in chel timp les condizions de me famêe no erin florides, no l’è stat tant for di puest il so malintendut e “alc” cun “ai” podin prestasi par sei confondus.
A proposit de Rusie, ultim Pais dulà che Filip a la lavorat, cun lui a erin diviers pincanes  emigras e un di lor ha la sposat une biele femine ruse e dute le so vite di sposade a l’ha vivide a Pincan vint formade achi une grande e rispetabil famêe. A fevelave le neste lenghe furlane a le so maniere, e a causave tante simpatie a sintile fevelà e il mut ca meteve a dum i sie discors par fasi intindi. In timp dale invasion dai Cosacs quant che i capos a levin in municipi par fevelà cul podestà o cul segretari dai lor problemas, a le clamavin lie par ca ur fases da interprete. Int’une ocasion ca vignive fur dal municipi dopo une riunion, in te strade, un gruput di giovins a si son vicinas disingli: “Marie cè anin dit i Cosacs?” e li econtinuant a ciaminà circumspiete e disimuladamenti par no dismovi sospiets, a ur à rispuindut cul so furlan: “Liste lor han cuarde taiait”.
Di Filip a mi è restat il ricuard di chei doi voi che cialavin a traviers di che sflese tra il bavar de mantelline e l’ale dal ciapiel, e la convinzion che sot il rest di che mantelline a si squindeve un grant furlan, un om sensibil e di une grande qualitat umane.

14 de noviembre de 2011

IL NONNO E I BOTTEGAI


Siamo ai tempi dell’abbondanza, della bonanza, dei super e ipermercati dove si compra e si vende alla grande e può sembrare una meschinità riandare ai tempi delle bottegucce di paese in cui si vendevano generi alimentari e altre cose di basica necessità. E forse questo contrasto di cambi integrali nelle comunità e nel nostro complesso sociale di oggi che induce al ricordo di quei tempi, del resto non proprio molto lontani, e trarne qualche comparazione con il modo di sussistere ai tempi di allora specie nel campo alimentare dato che è il tema che si presta a questo confronto. E’ inevitabile che a volte, rivangando con il pensiero nel passato, sorgano ricordi accumulati durante il transito per la vita. Ricordi belli, buoni, tristi, penosi, ecc..., a volte dal sapore amaro, nati da passaggi per tratti di oscurità esistenziale. Riaffiorano, nonostante i molti anni trascorsi, senza perdere la chiarezza delle situazioni vissute specialmente quando con loro portano momenti di tristezza e avversità. Di quei tempi e di quelle vicissitudini mio nonno spesso mi parlava, risentito, e imprecando contro chi poteva aiutare in caso di necessità e non lo faceva, e se acconsentiva, l’usura, la speculazione e lo strozzinaggio erano sempre presenti negli accordi o contratti che si stipulavano. Stavolta il nonno l’aveva contro i bottegai che erano i più vicini e con loro il tratto era quasi giornaliero. Da notare che l’epoca cui si riferiva erano gli anni venti-trenta del secolo scorso e intorno alla gente bisognosa, di scarse possibilità economiche, si erano formate delle circostanze, che spesso doveva sopportare abusi e soprusi con l’amor proprio maltrattato e senza poter reazionare in loro difesa, non per codardia, ma per una linea di condotta, di sopportazione, di umiltà, a volte per non urtare suscettibilità che avrebbero potuto compromettere la loro sussistenza e per nulla esagerato, la loro sopravvivenza. Tacere era una forma di tolleranza del più debole verso il più forte e questo atteggiamento veniva da molto tempo addietro, da secoli, e durò fino alla soglia della Seconda Guerra Mondiale il cui stato creò condizioni negative diverse che non richiedono nessuna spiegazione in quanto furono situazioni estreme entro le quali tutto poteva succedere. Nel post guerra si verificarono molti cambiamenti nelle nostre condizioni di vita. Avvennero miglioramenti decisivi nel campo sociale, economico, possibilità per tutti i giovani di accesso ad istituti di educazione superiore. Oggi a queste migliorie dobbiamo un tenore di vita ottimo, di cui mai prima avevamo goduto. Tornando al nonno, seguiva brontolando: “Questi disonesti che si beffano e speculano sulle necessità dei loro clienti e paesani”. Le imprecazioni contro i bottegai erano più per sfogarsi di ciò che gli bolliva dentro che per dirigersi a me che ero un bambino sulla soglia dell’adolescenza e certe cose non le potevo capire nella loro completa realtà. Nel paese dove mio nonno visse la maggior parte della sua vita c’erano diversi esercenti di botteghe che vendevano generi alimentari e altri articoli di prima necessità per la sussistenza della comunità. Il nonno, a mano a mano che crescevo, e potevo assimilare il suo discorrere, mi parlava di alcune forme di staffa e imbrogli che di consuetudine commettevano due dei bottegai i quali erano più dotati per frodare il prossimo: tirare con forza, certi alimenti, sul piatto della bilancia, in modo che la lancetta o il fido segnassero il peso giusto, togliendoli poi rapidamente poiché lasciandoli fermi si poteva notare i vari grammi mancanti che variavano secondo la quantità comprata. Altro stratagemma era, pressionare con disinvoltura con il dito mignolo, sul piatto della bilancia, infilato sotto la carta usata per avvolgere la compra. Altra manipolazione disonesta era il travaso dell’olio dal loro recipiente a quello del cliente. Essendo l’olio un liquido denso e ritirando il misurino con prontezza restava in questo una quantità che la misura comprata risultava sempre scarsa. Da tener presente che l’olio si comprava sfuso, in piccole quantità che spesso non superavano un ottavo o un decimo di litro. Può sembrare anche meschino dare a conoscere questi piccoli imbrogli, ma considerando che l’economia domestica era molto stirata e non poteva permettere manipolazioni che sottrassero assolutamente nulla. In buona parte la clientela era dotata di un libretto dove il bottegaio marcava l’importo di ogni compra e non poche volte le cifre marcate erano superiori a quelle reali corrispondenti ai generi comperati. Questo succedeva approfittando della poca dimestichezza che le donne avevano con le lettere e con i numeri. Altri raggiri si sommavano alla condotta di questi bottegai e altri maneggi subdoli praticavano nei loro negozi tanto da meritarsi tutti gli epiteti che il nonno usava per distinguerli. Fino a qui le birbonate di questi commercianti potevano essere comuni con molti altri disseminati nel nostro territorio, ed essendo privi di scrupoli etici e morali il loro sonno non fu mai turbato dall’intranquillità. Ma le cose prendono un altro aspetto molto più serio quando anche per una modica quantità di denaro dovuto e non soddisfatto il pagamento del debito alla data fissata, senza indugi e meno scrupoli di coscienza, casa e terreni del cliente moroso passavano in possesso del bottegaio con la compiacenza di legulei collaboratori che condividevano il bottino praticando manovre che, evadevano in certi casi, abilmente la giustizia e la legalità. Leggi che ai diseredati dalla sorte sembravano disumane e al finale della contesa favorivano sempre il bottegaio e il cliente veniva privato di beni che per gli altri erano di necessità vitale e avrebbero dovuto essere inalienabili. Le leggi sono leggi e danno diritti e obbligano a doveri i cittadini, ma in questo caso erano troppo severe, troppo drastiche applicate da uomini troppo ligi al dovere che in certi casi potevano essersi comportati con più elasticità nella loro applicazione verso famiglie che i pochi beni che possedevano costituivano la loro sopravvivenza.
Il non pagamento del debito al commerciante non era dovuto a comportamento capriccioso del cliente, ma spesso era condizionato dalla rimessa di denaro che avrebbe dovuto arrivare da qualche familiare emigrato all’estero o al vaglia spedito da una città italiana, ugualmente da familiare emigrato in patria, comunque lontani dai nostri paesi la cui gente in alta percentuale viveva dall’emigrazione. Se il denaro non arrivava, e ciò poteva succedere per vari motivi: infortunio sul lavoro, malattia, disoccupazione, ecc. Il bottegaio che non era mai disposto a concedere dilazioni né considerazioni sul mancato pagamento, procedeva al pignoramento e susseguente appropriazione dei beni immobili dei malcapitati clienti. Furono casi esecrabili sotto ogni aspetto. Per non procedere legalmente, quanto una donna con attributi e condizioni appropriate, accettasse le proposte indecorose ed infamanti del bottegaio, chiara induzione alla prostituzione. Con queste modalità molti beni di povera gente, gli unici che possedevano, passarono ad ingrossare i capitali di questi trafficanti, riducendo oneste famiglie in uno stato pietoso affogandosi nella miseria, e nell’indigenza. Solo nell’età adulta compresi in tutta la sua drammaticità e con chiarezza le situazioni che nell’ambito sociale in cui vivevamo, venivano succedendo e la rabbia malcontenta del nonno che non poteva sfogarsi per ottenere giustizia e un tratto umanitario di cui avevamo pieno diritto.

13 de noviembre de 2011

IL “PALLINO” PER LE PALLINE DI MATTIA


Mattia è solo un Mattia fra tanti, un umile cittadino che non ha nulla a che vedere con il famoso “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello. E’ un radiotecnico, un amico che sempre si è comportato in modo normale, corretto, equilibrato, ma….da un tempo a questa parte, spesso, nelle sue conversazioni, gli argomenti sono diversi dal frasario dal frasario convenzionale e dal discorrere comune. Mi fa pensare, stando a certe espressioni, che l’uomo sia un po’ fissato quando si riferisce al tempo e al modo di impiegarlo. L’uso del tempo, ultimamente per lui, mi stavo dando conto che era diventato ossessivo, specialmente quando si trattava di disporre le priorità d’impiego, scordandosi che questo fenomeno astratto ha mille forme e colori nelle sue manifestazioni. E’ fuggente, piacevole, doloroso, corto, lungo, a seconda dell’impiego che se ne faccia; allegro, triste secondo le circostanze in cui ci si trova involucrati e ha infinite altre forme ancora. Ora Mattia, riferendosi al tempo, ricorreva ripetutamente a molte frasi fatte, quali: “Haa, come passa veloce il tempo, già siamo a fine anno, mi sembra ieri che i miei figli erano bambini e già mi hanno fatto nonno.”
“Si il tempo passa e dovrei fare tante cose ma non ci riesco, non riesco a coordinare le priorità che più mi interesserebbe fossero esaudite.” Altra espressione sul tema era lamentarsi che un altro giorno se n’era andato ed altre ancora avevano sempre il tempo negativo come protagonista. Il ripetersi troppo spesso di queste lamentele è l’evidenza che Mattia è vittima di una forma maniacale contro il tempo. Non accetta più di essere ricordato al suo compleanno e mal sopporta le feste di fine anno. Mi sorprese un giorno dimostrandosi sereno e tranquillo nella conversazione dicendomi: “Da tanti anni penso a qualcosa per misurare il tempo a modo mio”. Ciò aumentò la mia attenzione e curiosità su ciò che volesse dire. Pensai che avesse inventato un nuovo tipo di orologio, come se non ne avessimo già un’infinità per ogni necessità, e prestazione, per misurare il tempo. Continuò “Vedi oggi mi sono seduto e ho fatto un po’ di conti: una persona in medi dovrebbe vivere settantacinque anni, alcuni vivono di più, altri vivono di meno, però la media è quella.” Allora moltiplicò 75 per le 52 settimane all’anno e mi diede 3900 che è il numero di sabati che una persona dovrebbe trascorrere in tutta la sua vita. Trascorsi molto tempo a pensando a tutto questo e, giunto a 55 anni, mi diedi conto che avevo vissuto più di duemilaottocento sabati! Pensai allora che se arrivassi ai 75 anni mi resterebbero solo mille sabati per vivere e godere il resto della mia vita. A questo punto visitai tre o quattro negozi di giocattoli e comprai mille palline di vetro, come quelle con cui giocavamo a boccette e a spanna da bambini.  
In casa le depositai in un vaso di cristallo trasparente. Ogni sabato, partendo da allora, prendevo una pallina e la buttavo nel cesto dei rifiuti. Vedendo diminuire le palline mi sentivo pressionato verso il compimento delle cose veramente importanti della mia vita.
Ora ti dirò, prima di lasciarci, stamattina ho tolto l’ultima pallina dal vaso di cristallo……Allora mi diedi conto che, se vivo fino al prossimo sabato, mi sarà concesso un po’ più di tempo, un po’ più di vita…..e se c’è qualcosa che tutti apprezziamo è poter disporre di tempo supplementare.
Strano modo usava Mattia per controllare il tempo che poteva rimanergli come risiedente di questo mondo, quando ogni giorno, purtroppo, fatti e cose ci ricordano di tenere la valigia pronta per il fatale viaggio che tutti dovremo compiere un giorno quando la tenebrosa signora della falce reclamerà la sua vittoria dopo averci dato tutta la vita di vantaggio.
Mattia, dal momento che buttò l’ultima pallina, ogni giorno faceva qualcosa di inconsueto nelle sue abitudini. Portava la famiglia a mangiare fuori al ristorante, comprava fiori alla moglie, la svegliava al mattino con un bacio, invitava i figli a giocare a carte, cosa che sempre gli piacque però non aveva potuto praticare questo gioco a suo gusto; insomma da quel giorno Mattia era come se avesse acquistato una nuova personalità. I familiari erano perplessi per questo cambio, ma non riuscivano ad attribuire una chiara causa a tale comportamento che non avendo effetti negativi non li preoccupava maggiormente. Io che ero venuto a conoscenza del suo “pallino” per le palline, vedevo e giudicavo, e non potevo ignorare la fissazione che Mattia aveva dedicato al tempo. Se l’avesse presa con il tempo come fenomeno meteorologico che ha qualcosa di tangibile, sarebbe rimasto con i piedi a terra, ma filare su quello spazio intoccabile, impalpabile, indefinito fenomeno che fluisce inarrestabile in una successione di istanti, è follia. Più strano è perdere la sua nozione a beneficio della nostra pace e serenità. Auguriamoci che Mattia possa attendere alle sue priorità e che la tenebrosa signora della falce tardi il più possibile a presentarsi al suo cospetto reclamandogli il suo tempo ormai scaduto.

12 de noviembre de 2011

IMPERATRICE DELL’UNIVERSO


Il primo giorno dell’anno iniziò con una festa singolare, “Santa Maria madre di Dio”. Appoggiarsi a lei è sinonimo di sicurezza e protezione. E’ logico festeggiarla e porre ai suoi piedi il nostro futuro. San Josè Maria soleva chiamarla con il titolo che precede queste righe. Vogliamo anche festeggiare le donne italiane, soprattutto quelle che discretamente accudiscono con sacrificio la propria famiglia, senza sperare in ricompensa alcuna. Qui viene al caso una rassegna che accusa un difetto nella donna, quando Dio creò la donna un angelo gli domandò perché investiva tanto tempo in lei. Dio gli disse: “Hai visto la lista delle sue specificazioni? Non può essere di materiale plastico. Dovrà avere più di duecento pezzi intercambiabili e alimentarsi solo del necessario. Deve avere un grembo in cui possano accomodarsi quattro bambini allo stesso tempo, dare un bacio per curare da un ginocchio ad un cuore infranto, e tutto lo farà solo con due mani”. L’angelo meravigliato disse: “E’ impossibile!”. “E questo è solo il modello standard” disse Dio. “E’ troppo lavoro” disse l’angelo “terminerà domani”. A ciò Dio rispose: “No, sono vicino a concludere la mia opera maestra. Lei si cura solo quando si ammala e può lavorare diciotto ore al giorno”. L’angelo si avvicinò alla donna e la toccò. “Però è cosi fragile e soave Signore….E’ soave, però è tanto ciò che si può agguantare!”. L’angelo notò qualcosa e toccò la guancia della donna con la mano. “Signore sembra che questo modello abbia una fuga….”. “Ti ho detto che la stavo creando con molte, forse troppe, cose. Quella non è una fuga, è una lacrima” corresse Dio “e che cos’è una lacrima? Le lacrime sono la sua maniera di esprimere gioia, amarezza, amore o sofferenza”. “Sei un genio Signore, la donna è meravigliosa” disse l’angelo alla fine. Lo è. Sorridono, quando vogliono gridare. Cantano, quando vorrebbero piangere. Piangono, quando sono felici, e ridono, quando sono nervose. Lottano per ciò che credono, non accettano un “no” come risposta definitiva. Sono grandi negoziatrici. Si privano di tutto per favorire la famiglia nelle necessità. Piangono, quando i figli trionfano. Il loro cuore si rompe, quando muore una persona cara. Concluse Dio: “Nonostante tutto questo ha un difetto: si dimentica di quanto vale!. Non estrassi la donna dalla testa dell’uomo per ricevere i suoi ordini. Né dai suoi piedi perché fosse la sua schiava ma dalle sue costole perché stia sempre vicino al suo cuore.”. E come Dio ha molto buon umore dicono che dopo aver creato l’uomo il settimo giorno riposò. Poi creò la donna e da allora non ha avuto neanche un momento di riposo!

11 de noviembre de 2011

LA COSACCA E LA CASACCA


Hop, hop, hop, scandito e ripetuto a tempo ritmato era ciò che si udiva proveniente dall’interno di un cortile che dava sulla strada dove in quel momento stavo transitando. Incuriosito al sentire quella voce, essendo il portone socchiuso, introdussi la testa e vidi Ivan a braccia conserte che stava tentando qualche passo di una frenetica danza russa, ma, come di consueto, era ubriaco e il suo ballo risultava una caricatura di quelle famose danze in cui, di tanto in tanto, i suoi compagni solevano esibirsi facendolo molto bene, con buon ritmo, e figure quasi acrobatiche.

Katiuska, la moglie di Ivan, dalla porta della casa dove erano alloggiati, lo guardava con commiserazione e visibilmente contrariata.  Katiuska era una donna bella, alta e ben formata, bionda con grandi occhi azzurri. Montava a cavallo come un’esperta e provetta amazzone, non smentendo in questo la fama della sua razza. Erano cosacchi di stirpe tartara stanziati nelle steppe della Russia meridionale e sulle rive del Don, arrivati nei nostri paesi ingannati dai nazisti che invasero la Russia durante la seconda guerra mondiale dicendo loro che le nostre regioni, Friuli e Carnia principalmente, erano territori abbandonati dalle rispettive popolazioni per fuggire alla guerra. Quindi terra, case e ogni bene era a loro disposizione per fondare la loro nuova patria.

A Pinzano arrivarono nel settembre del 1944. In quel giorno si parse la voce tra la gente del paese: “I cosacchi, i cosacchi, arrivano i cosacchi”. Il disagio, ma anche la curiosità erano evidenti tra le persone visibilmente concitate nell’attesa di vedere le facce di questa gente esotica di cui avevano solo un’idea attraverso i racconti dei romanzieri che riportavano le loro vicende. Dall’alto del colle che sovrasta il paese si poteva scorgere lontani tornanti della strada che si snoda tortuosa e da questa alzarsi delle nuvole di fumo bianco. Era la polvere mossa dalle carrette, dagli zoccoli dei cavalli e altri carriaggi dei quali si servivano per la loro locomozione.

Giunsero con le loro famiglie, donne, vecchi, bambini e le loro masserizie, un popolo completo che veniva a stabilirsi nei nostri paesi, nelle nostre case. Vedendoli da vicino, più che le loro fattezze mongoloidi, ci sorprese lo stato trasandato del loro abbigliamento, la visibile mancanza d’igiene personale e, più avanti, scoprimmo anche altre tare proprie della loro razza.

Arrivati tra noi si resero conto subito di essere stati ingannati e burlati dai nazisti. Incontrarono le case occupate dalla nostra gente, legittimi proprietari. Nessuno era fuggito, qui la guerra si faceva notare in molte forme negative però non c’era un fronte, una linea di combattimento. In certe località d’interesse strategico anche la nostra regione fu oggetto di bombardamenti a ponti e linee ferroviarie però ciò non produsse l’esodo come nella guerra 15-18 quando molta gente dovette allontanarsi e cercar rifugio altrove come profughi, essendo allora queste zone teatro di guerra.

In questo conflitto la gente rimase nelle proprie case vivendo come sempre, ovviamente, condizionata da molte penurie e sofferenze e a questi patimenti si aggiunse quello che i cosacchi non vollero accettare di alloggiare in locali pubblici come avevano disposto le autorità civili, scuole, capannoni, o altro stabile adeguato per accogliere gruppi numerosi di persone, ma vollero farlo in seno alle nostre famiglie, interponendosi ai civili. Ciò per evitare eventuali attacchi da parte dei partigiani le cui formazioni erano attive nella nostra regione e questa fu la ragione per cui i tedeschi portarono qui i cosacchi, per contenere e arginare il più possibile le operazioni partigiane.

Ci trovammo così con due o tre di loro alloggiati nelle nostre case. Tra l’altro si preparavano i loro pasti con alimenti rubacchiati qua e là poiché i tedeschi non gli davano né viveri né armamenti adeguati e sufficienti alle loro necessità, per alimentarsi e per difendersi. Perciò come è nelle loro tradizioni e abitudini vivevano di razzia.

Organizzavano delle scorrerie nelle borgate o in qualsiasi luogo per provvedersi di fieno per i cavalli e di ogni altra cosa sulla quale posassero gli occhi e che poteva essergli utile. Di notte erano costanti le incursioni nei pollai. Erano noti per la loro dedizione all’alcol e tracannavano  qualsiasi bevanda alcolica, a volte anche tossica, come può essere l’alcol denaturato. I cosacchi erano fedeli servitori dello zar e costituivano reparti delle truppe regolari del suo esercito. Si servivano di loro particolarmente per sedare tumulti, sommosse o qualsiasi manifestazione contraria al regime zarista, o che potesse offuscare la propria immagine. Erano degli abilissimi cavallerizzi e temibili nei loro interventi. In compenso delle loro prestazioni gli era permessa la razzia delle località coinvolte e in questi casi le loro azioni si trasformavano in scorrerie banditesche. Saccheggiavano, rubavano, estorcevano, violentavano le donne e si impadronivano di tutto ciò che potessero trasportare lasciando morte e desolazione al loro passaggio.

Con l’avvento della rivoluzione russa nel 1917 e l’instaurazione al potere del regime comunista furono assassinati lo zar e tutta la famiglia Romanov. I cosacchi furono perseguitati e molti di loro rinchiusi in campi di concentramento o di sterminio. Per i tedeschi non fu difficile ingannarli approfittando del loro risentimento contro il regime vigente in Russia e con false promesse li convogliarono verso il Friuli e la Carnia.

Come collaborazionisti, masnadieri, al servizio dei nazisti, non possono essere compatiti e tollerate le loro azioni perché anche loro, come i loro padroni, hanno lasciato una scia nefasta al loro passaggio per il Friuli e specialmente in Carnia. Per ciò che mi riguarda personalmente devo lamentare l’aggressione a mio padre. Per derubarlo fu atterrato con un colpo alla testa col calcio del fucile, gli spararono poi un tiro ma fortunatamente la pallottola gli passò di striscio sul cuoio capelluto. Le conseguenze furono molto gravi ma sopravvisse.

La guerra è uno stato anomalo che può succedere durante la nostra esistenza, ne siamo succubi senza volerlo, e siamo coinvolti ed esposti a situazioni estreme, soffrendo le conseguenze di questo stato di violenza e chi sopravvive, sia pure con le lesioni nell’anima e nel corpo, dovrà ringraziare la provvidenza comunque, di essere ancora in vita.

Fra le pieghe di queste violenze, sotto la pressione della paura, l’uomo può perdere il senso civile della ragione e il raziocinio dei suoi atti. Ma sempre può sorgere l’eccezione e affiorare nell’animo sentimenti compassionevoli verso il nemico che un momento prima volevamo andasse fuori dai piedi. E’ il caso di mia madre che nei giorni di fine guerra ha avuto parole di commiserazione verso due cosacchi che avevamo in casa e che a conoscere il proprio destino piangevano con la testa appoggiata sul tavolo. Diceva: “sono così giovani e sicuramente avranno anche loro una mamma che ansiosa li aspetta”. E’ meraviglioso, dentro quel marasma di emozioni che causa l’essere coinvolti nella guerra, lasciare il sopravvento all’amore, al perdono al posto del risentimento e all’odio.

Un altro fatto che conferma ciò che è appena scritto qui sopra è che Katiuska, pur conoscendo e sapendo che nella casa di fronte viveva la mia fidanzata e spesso ci vedeva insieme, e lei era cosacca e nemica, non dimenticava di essere donna, in varie occasioni si atteggiava seduttrice facendo risaltare ciò di cui era ben dotata, si avvicinava insinuante un po’ troppo, e se i nostri idiomi non si capivano, un altro linguaggio era ben comprensibile, conosceva l’arte della seduzione. Infine era donna e tutte le donne nascono dotate dell’arte per sedurre e conquistare gli uomini che sempre sono più ingenui. Io facevo il tonto per non trovarmi coinvolto in un’avventura che per varie ragioni doveva essere evitata. Prima di tutto frenare, mortificare il mio orgoglio maschilista, la più delicata e importante, potevo essere accusato di collaborazionismo con il nemico, Ivan…il terribile, avrebbe potuto squartarmi con la spada.

Il motivo che mi dava l’opportunità di vedere spesso la cosacca è che viveva di fronte alla casa della mia ragazza che io frequentavo spesso. Qualsiasi intimità più in là di “Dasvidania” (saluto russo) sarebbe stato un guaio che non volevo succedesse. Per ultimo Katiuska era bella sì, ma la poca igiene personale, e l’alito di aglio e cipolla che lei come tutti i cosacchi mangiava in abbondanza, avrebbe tenuto a distanza il più temuto degli uomini, forse meno Ivan, che oltre all’aglio e cipolla doveva aggiungere i miasmi dell’alcol.

Ciò che mi fa ricordare Katiuska non sono le sue attitudini deduttive ma una sera che, come tante altre, ero in casa della mia ragazza mi si avvicinò e con cipiglio minaccioso mi prese per il bavero della giacca e mi disse: “Tu partisan!” e tirando il bavero per la punta aggiunse “Americana!” riferendosi al giaccone che portavo. Rimasi un momento impacciato e timoroso, poi dissi a mia volta. “No partisan!” Parlando all’infinito, accompagnai con un gesto simulando un aereo e facendone il rumore, “San Daniele caduto aereo americano, io prendere questo”.

Era vero che era caduto un aereo, un bombardiere, a San Daniele e casualmente lo vidi cadere, trovandomi con la bicicletta molto vicino al posto, per curiosità assistendo ad un fatto così straordinario, insieme ad altra gente accorsa, mi avvicinai all’aereo non con l’intenzione di impossessarmi di qualcosa, arrivai a vedere solo un morto negro. In quel momento giunsero due fascisti con il moschetto e ci spararono ai talloni per allontanarci.

Comunque aveva ragione lei, ero partigiano e la giacca era la parte superiore di una tuta di un pilota inglese. Mi era stata regalata da un maggiore inglese capo della missione militare della quale facevo parte come autista nelle formazioni partigiane. Durante il grande rastrellamento nell’autunno del 1944, sciolte le formazioni fino alla prossima primavera, rimanemmo liberi di raggiungere le nostre case. Io potei superare lo sbarramento delle truppe tedesche, cosacche e missini della repubblica di Salò, che ci stavano braccando nella zona pedemontana della Val Tramontina, e dopo varie peripezie arrivai a casa mia con la giacca in questione.

Temevo che la cosacca, che in seno alle sue truppe aveva qualche gerarchia di comando, potesse valersene per arrestarmi o causarmi qualche noia, però non lo fece e il problema “giacca” non ebbe altro seguito. In quei tempi non era raro vedere le nostre ragazze vestire camicette e altri indumenti fatte con la tela dei paracadute inglesi o americani discesi dai nostri cieli a rifornire le formazioni partigiane di viveri, armi e altre vettovaglie necessarie alla causa.

Un fatto strano devo aggiungere a questi aneddoti e brevi storie di cosacchi. Finita la guerra negli anni cinquanta emigrai in Venezuela dove esercitavo il mio mestiere di fotografo  e un giorno mi chiamarono per fare delle fotografie in occasione di una festa familiare. Giunto sul posto mi resi subito conto che erano stranieri e chiesi di dove fossero, quale era la loro provenienza e mi dissero che erano russi.

A loro volta mi domandarono la mia provenienza e dissi che ero italiano, di Udine. Una delle donne presenti mi disse che conosceva Spilimbergo. L’uomo che le stava a lato la interruppe bruscamente con una gomitata al fianco e uno sguardo fulminante facendola a tacere. Era evidente che erano cosacchi, forse gli stessi che aggredirono mio padre. Questa sì che fu una strana e rara coincidenza, incontrare a diecimila chilometri di distanza questi residui di guerra che dieci anni prima causarono tante sofferenze alla gente dei nostri paesi.

Tutte le vicende narrate sono lo specchio di una realtà vissuta. Vive la speranza che la crescita della cultura crei uomini savi illuminati, che sappiano evitare le guerre che lasciano solo degenerazione, patimenti, sofferenze e dolore, e le generazioni future godano di pace, giustizia e libertà.