Cinquant’anni vissuti in un paese straniero in veste d’emigrante
rappresentano tutta una vita, e questa fu la conseguenza della determinazione
presa fra le poche alternative che la situazione permetteva di scegliere
nell’immediato dopoguerra a noi giovani, per tentare di risolvere i tanti
problemi per giungere alla nostra realizzazione senza esitare di fronte al
costo che incombeva prendendo questa decisione. Costo ben noto a tutti quelli
che lasciavano la patria per cercare fortuna negli altri Paesi. Per bene che potesse
andare risulterebbe troppo lungo elencare la sequela di rinunce, negatività e a
volte umiliazioni, che soffre l’emigrante dal momento in cui mette piede in
terra straniera, restandole solo la libertà di rifugiarsi nei suoi ricordi, nel
rimpianto, e la nostalgia di tutto ciò che dovette abbandonare e
particolarmente negli affetti delle persone care lasciate lontane. Mentre gli
anni passano spesse volte, dal profondo dell’animo, sorge il riflusso di una
voce che reclama il reintegro a quel minuscolo spazio che da molto tempo già fu
lasciato vuoto, reclama la tesserina che dovrebbe riempire lo spazio di quell’immenso
puzzle formato dall’Italia e quel paesino ubicato in una qualsiasi parte della
sua patria. Quella voce affiora forte e pretenziosa nonostante che in questa
terra normali circostanze siano intervenute a creare una famiglia, quindi
l’esistenza di nuovi vincoli affettivi con figli e nipoti ai quali, nel mio
caso, devo la mia presenza non avendo a questo punto della mia vita altri
obblighi da soddisfare se non, come già detto, affettivi.
Vengono a formarsi così due opzioni; da una parte la
considerazione verso i familiari, dall’altra il richiamo dove sono rimaste le
mie radici nella terra dove nacqui molti anni fa. Di lì viene la voce che
pretende la parte che le corrisponde. Ho sempre amato la mia patria e lontano
ancora di più, ed è per questo che non riuscivo a scrollarmi di dosso
l’incomodità della lontananza facendosi vivo il desiderio del ritorno tra la
mia gente, alla mia casa, dove sono vissuti i miei vecchi, dove sono cresciuto
gioendo, amando e soffrendo. Certo è che prima di cedere a queste debolezze
l’emigrante dovrà aver compiuto il suo ciclo lavorativo durante gli anni della
sua vita utile e solo allora potrà pensare al ritorno se la vecchiaia, l’apatia
e la stanchezza non abbiano già offuscato la volontà di farlo. Questo mio
desiderio di ritornare in patria poteva aver creato qualche conflitto con i
miei figli, per quell’attitudine protettiva che questi assumono verso il padre
anziano, però prevalsero la comprensione e il buon proposito di accondiscendere
a questa mia volontà.
Il conflitto fu con me stesso, e non poco mi costò
prendere la decisione definitiva, e in questo passai molti giorni vagliando
scrupoli e timori per non prendere alla leggera questa risoluzione essendo già
un uomo anziano, e questo implica molte componenti da prendere in
considerazione.
Infine fu deciso il mio rientro in patria con la
clausola di non irrevocabilmente definitivo. Si fecero le valige, presi l’aereo
e, prima che mi abituassi all’idea, varcai la soglia della mia casa in Italia.
Al porre piede sul suolo patrio pensai a molte cose che avrei realizzato, però
molte di queste rimasero solo sul progetto sia per il notevole cambio operato
dal tempo sia per il fatto che molte cose non corrispondevano più ai miei
principi e abitudini, sia per lo stato del mio fisico che contraddiceva ciò che
la mia mente concepiva. Quindi mi dovetti adeguare alla diversa realtà che
incontrai e tentare di assimilarla piegando la mia condotta a queste esigenze
molto diverse da quelle che dentro di me andavo rimuginando. Certo è che
cinquant’anni avevano cambiato molte cose nel modus vivendi della mia gente. Comunque alcuni dei miei “sogni” li
ritenevo ancora realizzabili, solo che dovevo ricercare una dimensione di vita
adeguata alla mia età prima che i propositi si dileguassero con lo svanire
delle forze di cui ancora potevo disporre per realizzarli. Accarezzavo l’idea
di poter curare l’orto, i fiori sparsi un pò dappertutto nella casa che
denotano la mia passione per qualunque sia la loro varietà, concedermi il
piacere di bere un bicchiere di vino nell’unico bar esistente sulla piazza
assieme ad un amico conversando di cose banali, intrascendenti, o magari anche
dei nuovi valori etici e morali che spesso mi risultano così estranei e
indisponenti quando si scontrano con la mia formazione di vecchio stampo.
Insomma nel fondo cercavo di incontrarmi e poter comunicarmi con il prossimo.
Sono qui comunque nella mia casa in questo piccolo paese. A volte, tempo
permettendo, salgo a camminare per la salute del corpo e per distrarre la
mente, sempre con il desiderio di incontrare, nel cammino, quel qualcuno
disposto a scambiare sia pure le solite frasi convenzionali, come parlare del
tempo, dir male del governo, per chi o perché suona la campana a quest’ora
insolita. Quel prossimo, quel qualcuno non lo trovai come pensavo che fosse, al
primo angolo di via. Non trovo nessuno sul mio cammino, non un essere
vivente….si sente un bau bau, e un cane nero dentro un recinto adiacente ad una
casa mi abbaia, poi guaisce, non ha un atteggiamento ostile, anzi scodinzola in
segno di amicizia. Ciò mi anima e introduco la mano in uno spazio della
ringhiera che ci separa, lo accarezzo, si acquieta. Seguo fra l’abitato e
l’aperta campagna per la via Circonvallazione. Non percepisco nessun rumore se
non quello di un camion che passa lontano sulla via principale e se ne va per i
fatti suoi. Dalle case ubicate alla mia destra nulla da segno di vita, non
traspare neanche un raggio di luce, sebbene sia quasi notte, sarà perché è
inverno, stagione fredda, e porte e finestre le tengono ben chiuse così non
lasciano filtrare né rumori né spiragli di luce e quest’atmosfera greve che mi
circonda e m’invade mi fa sentire estraneo e incomodo nel mio ambiente
richiamando alla mente la realistica creazione dello scrittore venezuelano
Miguel Otero Silva “Casas Muertas”; ciò induce a pensare che anche questo paese
sia morto. Nel racconto un’epidemia eliminò gli abitanti e in conseguenza
morirono anche le case. Qui l’assenza di vitalità e dinamismo è dovuta ad altri
motivi tra i quali la mancanza di evoluzione socio economica che obbliga la
nostra gente, specialmente i giovani, ad emigrare verso luoghi più promissori.
Continuo la mia camminata senza poter evadere un senso di solitudine che mi
suggerisce l’intorno che mi circonda. La sento penetrare dentro di me e cammina
con me senza poterla evitare. Passo di fronte alla casa di riposo immersa in
totale silenzio (non potrebbe essere diversamente, di lì non ci si può
aspettare di sentire musica rock ad alto volume o altre manifestazioni
chiassose). Guardando il giardino, attraverso i rami di un albero intravedo due
donne sedute su una panca, una non la conosco, deve essere la badante venuta da
qualche paese esotico dell’est, come tante altre che accompagnano o assistono
tanti vecchi malandati o inabili, l’altra si riesco a riconoscerla, ha qualche
anno più di me ed è ospite di questa casa. A fatica ricostruisco quella giovane
bellezza che fu in gioventù, quando lo sguardo si posava sulla sua fresca e
generosa figura e andava oltre come una sorta di raggi X e allora il sangue
correva accelerato nelle mie vene. Ora mi rattrista guardarla e notare come il
tempo non ha risparmiato nulla nella sua opera demolitrice lasciando di lei
solo vaghe sembianze appena per poterla riconoscere.
Proseguo il mio cammino e, ad un certo punto,
incontro un crocevia, una di quelle strade porta al camposanto e non si può non
pensare che, considerando la mia età, non sarà lontano il giorno che Dio
deciderà di togliermi da questo mondo e quella strada di certo non la
percorrerò camminando. Allora sarà la fine di tutto e sarà anche la risposta
volutamente celata, a quel desiderio che covava in fondo al cuore, di ritornare
per sempre alla terra che mi vide nascere.
Continuo dirigendo i miei passi verso l’abitato,
verso il centro del paese, avvolto nella tenue luce crepuscolare. Predomina il
silenzio, rotto ogni tanto da qualche veicolo che passa e si perde alla prima
curva, scompare veloce come un fantasma, come quel rondone che sfreccia
nell’aria e scompare anche lui dietro la mole del campanile, dominante
sentinella e testimone dei piccoli e grandi drammi che succedono
quotidianamente ai suoi piedi tra i popolani. Passo davanti alla chiesa, prendo
una stradina bordeggiata da muri alti in parte merlati vestigia di tempi
antichi appartenenti al passato storico di questo paese, quando i Savorgnan,
castellani despoti “signori” e padroni di questo borgo, esercitavano il loro
dominio. Questa stradetta porta sulla piazza, ampio spazio della via principale
che attraversa il paese, dove si trovano il municipio, l’unico bar e qualche
altro negozio tra i quali spicca il cartello di “sale e tabacchi” in altro
tempo monopolio dello stato. Questi esercizi fanno si che qui circoli qualche
persona e, comparato con il resto del paese, potrebbe sembrare un affollamento.
Di qui mi dirigo verso una casa ubicata un centinaio
di metri più in là. Ritorno alla mia dimora e, come sempre, è riconfortante il
rientro a casa ma, da quando sono in Italia, non mi è facile evadere un certo
senso di solitudine che non fu previsto al prendere la decisione di rientrare
in patria. Sarà perché qui non ho trovato l’ambiente che supponevo esistesse.
Ora che sono qui sto constatando una realtà diversa che dovrò assimilare a poco
a poco.
Sono in casa e non godo di compagnia umana e nello
stesso tempo c’è anche il rincontro con la solitudine. A dire il vero non sono
solo, ho un gatto che mi aspetta: non ho un gatto, è lui che ha me. E’ un gatto
randagio e un giorno m’impietosì la sua fame. Gli ho dato da mangiare e da quel
giorno continuo alimentandolo senza ottenere nessuna manifestazione di
dimestichezza; è solo un essere vivente che si muove vicino a me e ciò m’illude
di avere compagnia, anche se si avvicina guardingo e infido. Non può capire che
avrei bisogno di un amico e non di un essere selvaggio. Più ovvio è il
comportamento degli uccellini che sfrecciano lontani da me in quel lembo di
cielo che mi è dato di avere davanti ai miei occhi, dopo aver beccato le
briciole di pane che ho posto loro in un angolo dell’orto. Quello che dimostra
più gratitudine è un pettirosso che si lascia avvicinare gratificandomi con un
cip cip prima di allontanarsi verso la boscaglia adiacente ad incontrare la sua
compagna.
Pensavo di essere più forte, più preparato per
sopportare certi patemi d’animo che potessero sorgere affrontando un modus vivendi diametralmente diverso da
quello del paese che avevo lasciato. Forse non ho fatto bene i conti con la mia
età, sono un anziano ed è naturale che tutte le funzioni del mio organismo
risultino fiaccate dal deterioro fisico e mentale. Può darsi che
psicologicamente e mentalmente ci sia stato un inconscio rifiuto a ciò che
succede al mio corpo e questo è il motivo dell’evento imprevisto. In età
già avanzata varie circostanze si sono sommate creando le condizioni che mi
condussero a vivere da solo. Sono qui nella mia casa e in ogni luogo ci sono
molte cose che richiamano la presenza, in altri tempi, di persone care, oggetti
e cose che, quando sono entrati ad occupare il posto a loro corrispondente,
vibravano di una calda presenza e avevano una viva personalità. Ora la loro
eloquente voce sembra spenta, il loro palpitare esaurito. Ho la sensazione di
essere circondato da cose morte, alcune per no poterle più usare, altre per non
causarmi più le mozioni di quando sono entrate a far parte del corredo di
questa casa. Queste cose emanavano vitalità che corrispondeva alla mia
vitalità, al mio desiderio di vivre che erano l’espressione di uno spirito in
un corpo giovane.
E’ triste invecchiare rendendosene conto e assistere
impotenti al declino delle nostre facoltà, non avere alternative, appigli a cui
ricorrere per attutire il trauma di tale decadenza. Un caro amico mi disse che
nelle circostanze drammatiche, cruciali, affliggenti che ci capitano nella
vita, ci sarà sempre uno spiraglio di luce che apparirà per consolarci nei
momenti di maggior sconforto. E’ vero. In questo caso, rivedendo la traiettoria
della mia vita giunta molto in là nella mia esistenza, “quella luce” è il
riflesso della mia coscienza pulita, frutto di un comportamento irrefutabile,
questa è la luce che mi da serenità e pace al cospetto di Dio e degli uomini. E
sarà il salvacondotto per intraprendere il grande e ultimo viaggio con
l’approvazione umana e divina.
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