1 de noviembre de 2011

VERSO L’OSCURITA


Cinquant’anni vissuti in un paese straniero in veste d’emigrante rappresentano tutta una vita, e questa fu la conseguenza della determinazione presa fra le poche alternative che la situazione permetteva di scegliere nell’immediato dopoguerra a noi giovani, per tentare di risolvere i tanti problemi per giungere alla nostra realizzazione senza esitare di fronte al costo che incombeva prendendo questa decisione. Costo ben noto a tutti quelli che lasciavano la patria per cercare fortuna negli altri Paesi. Per bene che potesse andare risulterebbe troppo lungo elencare la sequela di rinunce, negatività e a volte umiliazioni, che soffre l’emigrante dal momento in cui mette piede in terra straniera, restandole solo la libertà di rifugiarsi nei suoi ricordi, nel rimpianto, e la nostalgia di tutto ciò che dovette abbandonare e particolarmente negli affetti delle persone care lasciate lontane. Mentre gli anni passano spesse volte, dal profondo dell’animo, sorge il riflusso di una voce che reclama il reintegro a quel minuscolo spazio che da molto tempo già fu lasciato vuoto, reclama la tesserina che dovrebbe riempire lo spazio di quell’immenso puzzle formato dall’Italia e quel paesino ubicato in una qualsiasi parte della sua patria. Quella voce affiora forte e pretenziosa nonostante che in questa terra normali circostanze siano intervenute a creare una famiglia, quindi l’esistenza di nuovi vincoli affettivi con figli e nipoti ai quali, nel mio caso, devo la mia presenza non avendo a questo punto della mia vita altri obblighi da soddisfare se non, come già detto, affettivi.
Vengono a formarsi così due opzioni; da una parte la considerazione verso i familiari, dall’altra il richiamo dove sono rimaste le mie radici nella terra dove nacqui molti anni fa. Di lì viene la voce che pretende la parte che le corrisponde. Ho sempre amato la mia patria e lontano ancora di più, ed è per questo che non riuscivo a scrollarmi di dosso l’incomodità della lontananza facendosi vivo il desiderio del ritorno tra la mia gente, alla mia casa, dove sono vissuti i miei vecchi, dove sono cresciuto gioendo, amando e soffrendo. Certo è che prima di cedere a queste debolezze l’emigrante dovrà aver compiuto il suo ciclo lavorativo durante gli anni della sua vita utile e solo allora potrà pensare al ritorno se la vecchiaia, l’apatia e la stanchezza non abbiano già offuscato la volontà di farlo. Questo mio desiderio di ritornare in patria poteva aver creato qualche conflitto con i miei figli, per quell’attitudine protettiva che questi assumono verso il padre anziano, però prevalsero la comprensione e il buon proposito di accondiscendere a questa mia volontà.
Il conflitto fu con me stesso, e non poco mi costò prendere la decisione definitiva, e in questo passai molti giorni vagliando scrupoli e timori per non prendere alla leggera questa risoluzione essendo già un uomo anziano, e questo implica molte componenti da prendere in considerazione.
Infine fu deciso il mio rientro in patria con la clausola di non irrevocabilmente definitivo. Si fecero le valige, presi l’aereo e, prima che mi abituassi all’idea, varcai la soglia della mia casa in Italia. Al porre piede sul suolo patrio pensai a molte cose che avrei realizzato, però molte di queste rimasero solo sul progetto sia per il notevole cambio operato dal tempo sia per il fatto che molte cose non corrispondevano più ai miei principi e abitudini, sia per lo stato del mio fisico che contraddiceva ciò che la mia mente concepiva. Quindi mi dovetti adeguare alla diversa realtà che incontrai e tentare di assimilarla piegando la mia condotta a queste esigenze molto diverse da quelle che dentro di me andavo rimuginando. Certo è che cinquant’anni avevano cambiato molte cose nel modus vivendi della mia gente. Comunque alcuni dei miei “sogni” li ritenevo ancora realizzabili, solo che dovevo ricercare una dimensione di vita adeguata alla mia età prima che i propositi si dileguassero con lo svanire delle forze di cui ancora potevo disporre per realizzarli. Accarezzavo l’idea di poter curare l’orto, i fiori sparsi un pò dappertutto nella casa che denotano la mia passione per qualunque sia la loro varietà, concedermi il piacere di bere un bicchiere di vino nell’unico bar esistente sulla piazza assieme ad un amico conversando di cose banali, intrascendenti, o magari anche dei nuovi valori etici e morali che spesso mi risultano così estranei e indisponenti quando si scontrano con la mia formazione di vecchio stampo. Insomma nel fondo cercavo di incontrarmi e poter comunicarmi con il prossimo. Sono qui comunque nella mia casa in questo piccolo paese. A volte, tempo permettendo, salgo a camminare per la salute del corpo e per distrarre la mente, sempre con il desiderio di incontrare, nel cammino, quel qualcuno disposto a scambiare sia pure le solite frasi convenzionali, come parlare del tempo, dir male del governo, per chi o perché suona la campana a quest’ora insolita. Quel prossimo, quel qualcuno non lo trovai come pensavo che fosse, al primo angolo di via. Non trovo nessuno sul mio cammino, non un essere vivente….si sente un bau bau, e un cane nero dentro un recinto adiacente ad una casa mi abbaia, poi guaisce, non ha un atteggiamento ostile, anzi scodinzola in segno di amicizia. Ciò mi anima e introduco la mano in uno spazio della ringhiera che ci separa, lo accarezzo, si acquieta. Seguo fra l’abitato e l’aperta campagna per la via Circonvallazione. Non percepisco nessun rumore se non quello di un camion che passa lontano sulla via principale e se ne va per i fatti suoi. Dalle case ubicate alla mia destra nulla da segno di vita, non traspare neanche un raggio di luce, sebbene sia quasi notte, sarà perché è inverno, stagione fredda, e porte e finestre le tengono ben chiuse così non lasciano filtrare né rumori né spiragli di luce e quest’atmosfera greve che mi circonda e m’invade mi fa sentire estraneo e incomodo nel mio ambiente richiamando alla mente la realistica creazione dello scrittore venezuelano Miguel Otero Silva “Casas Muertas”; ciò induce a pensare che anche questo paese sia morto. Nel racconto un’epidemia eliminò gli abitanti e in conseguenza morirono anche le case. Qui l’assenza di vitalità e dinamismo è dovuta ad altri motivi tra i quali la mancanza di evoluzione socio economica che obbliga la nostra gente, specialmente i giovani, ad emigrare verso luoghi più promissori. Continuo la mia camminata senza poter evadere un senso di solitudine che mi suggerisce l’intorno che mi circonda. La sento penetrare dentro di me e cammina con me senza poterla evitare. Passo di fronte alla casa di riposo immersa in totale silenzio (non potrebbe essere diversamente, di lì non ci si può aspettare di sentire musica rock ad alto volume o altre manifestazioni chiassose). Guardando il giardino, attraverso i rami di un albero intravedo due donne sedute su una panca, una non la conosco, deve essere la badante venuta da qualche paese esotico dell’est, come tante altre che accompagnano o assistono tanti vecchi malandati o inabili, l’altra si riesco a riconoscerla, ha qualche anno più di me ed è ospite di questa casa. A fatica ricostruisco quella giovane bellezza che fu in gioventù, quando lo sguardo si posava sulla sua fresca e generosa figura e andava oltre come una sorta di raggi X e allora il sangue correva accelerato nelle mie vene. Ora mi rattrista guardarla e notare come il tempo non ha risparmiato nulla nella sua opera demolitrice lasciando di lei solo vaghe sembianze appena per poterla riconoscere.
Proseguo il mio cammino e, ad un certo punto, incontro un crocevia, una di quelle strade porta al camposanto e non si può non pensare che, considerando la mia età, non sarà lontano il giorno che Dio deciderà di togliermi da questo mondo e quella strada di certo non la percorrerò camminando. Allora sarà la fine di tutto e sarà anche la risposta volutamente celata, a quel desiderio che covava in fondo al cuore, di ritornare per sempre alla terra che mi vide nascere.
Continuo dirigendo i miei passi verso l’abitato, verso il centro del paese, avvolto nella tenue luce crepuscolare. Predomina il silenzio, rotto ogni tanto da qualche veicolo che passa e si perde alla prima curva, scompare veloce come un fantasma, come quel rondone che sfreccia nell’aria e scompare anche lui dietro la mole del campanile, dominante sentinella e testimone dei piccoli e grandi drammi che succedono quotidianamente ai suoi piedi tra i popolani. Passo davanti alla chiesa, prendo una stradina bordeggiata da muri alti in parte merlati vestigia di tempi antichi appartenenti al passato storico di questo paese, quando i Savorgnan, castellani despoti “signori” e padroni di questo borgo, esercitavano il loro dominio. Questa stradetta porta sulla piazza, ampio spazio della via principale che attraversa il paese, dove si trovano il municipio, l’unico bar e qualche altro negozio tra i quali spicca il cartello di “sale e tabacchi” in altro tempo monopolio dello stato. Questi esercizi fanno si che qui circoli qualche persona e, comparato con il resto del paese, potrebbe sembrare un affollamento.
Di qui mi dirigo verso una casa ubicata un centinaio di metri più in là. Ritorno alla mia dimora e, come sempre, è riconfortante il rientro a casa ma, da quando sono in Italia, non mi è facile evadere un certo senso di solitudine che non fu previsto al prendere la decisione di rientrare in patria. Sarà perché qui non ho trovato l’ambiente che supponevo esistesse. Ora che sono qui sto constatando una realtà diversa che dovrò assimilare a poco a poco.
Sono in casa e non godo di compagnia umana e nello stesso tempo c’è anche il rincontro con la solitudine. A dire il vero non sono solo, ho un gatto che mi aspetta: non ho un gatto, è lui che ha me. E’ un gatto randagio e un giorno m’impietosì la sua fame. Gli ho dato da mangiare e da quel giorno continuo alimentandolo senza ottenere nessuna manifestazione di dimestichezza; è solo un essere vivente che si muove vicino a me e ciò m’illude di avere compagnia, anche se si avvicina guardingo e infido. Non può capire che avrei bisogno di un amico e non di un essere selvaggio. Più ovvio è il comportamento degli uccellini che sfrecciano lontani da me in quel lembo di cielo che mi è dato di avere davanti ai miei occhi, dopo aver beccato le briciole di pane che ho posto loro in un angolo dell’orto. Quello che dimostra più gratitudine è un pettirosso che si lascia avvicinare gratificandomi con un cip cip prima di allontanarsi verso la boscaglia adiacente ad incontrare la sua compagna.
Pensavo di essere più forte, più preparato per sopportare certi patemi d’animo che potessero sorgere affrontando un modus vivendi diametralmente diverso da quello del paese che avevo lasciato. Forse non ho fatto bene i conti con la mia età, sono un anziano ed è naturale che tutte le funzioni del mio organismo risultino fiaccate dal deterioro fisico e mentale. Può darsi che psicologicamente e mentalmente ci sia stato un inconscio rifiuto a ciò che succede al mio corpo e questo è il motivo dell’evento imprevisto. In età già avanzata varie circostanze si sono sommate creando le condizioni che mi condussero a vivere da solo. Sono qui nella mia casa e in ogni luogo ci sono molte cose che richiamano la presenza, in altri tempi, di persone care, oggetti e cose che, quando sono entrati ad occupare il posto a loro corrispondente, vibravano di una calda presenza e avevano una viva personalità. Ora la loro eloquente voce sembra spenta, il loro palpitare esaurito. Ho la sensazione di essere circondato da cose morte, alcune per no poterle più usare, altre per non causarmi più le mozioni di quando sono entrate a far parte del corredo di questa casa. Queste cose emanavano vitalità che corrispondeva alla mia vitalità, al mio desiderio di vivre che erano l’espressione di uno spirito in un corpo giovane.
E’ triste invecchiare rendendosene conto e assistere impotenti al declino delle nostre facoltà, non avere alternative, appigli a cui ricorrere per attutire il trauma di tale decadenza. Un caro amico mi disse che nelle circostanze drammatiche, cruciali, affliggenti che ci capitano nella vita, ci sarà sempre uno spiraglio di luce che apparirà per consolarci nei momenti di maggior sconforto. E’ vero. In questo caso, rivedendo la traiettoria della mia vita giunta molto in là nella mia esistenza, “quella luce” è il riflesso della mia coscienza pulita, frutto di un comportamento irrefutabile, questa è la luce che mi da serenità e pace al cospetto di Dio e degli uomini. E sarà il salvacondotto per intraprendere il grande e ultimo viaggio con l’approvazione umana e divina.

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