Era un dicembre della mia ormai lontana adolescenza e
il freddo già si lasciava sentire come per lasciar presagire un inverno rigido
e inclemente. Sono i giorni che precedono il Natale e la gente si sente pervasa
dallo spirito natalizio preludio e auspicio di pace e cose buone, stato d’animo
che si risveglia tutti gli anni in quest’epoca in ogni famiglia cristiana.
Corrono gli anni trenta del secolo scorso. Anni di
penurie e povertà nelle classi sociali basse, critici per la spicciola economia
familiare conseguente di una vita sacrificata ma portata avanti con decoro e
dignità. Nonostante tutto in questi giorni festivi di fine anno si compiva
sempre un piccolo miracolo che permetteva di porre in tavola una pietanza
speciale sulla tovaglia di lino portata in dote dalla mamma, che si usava solo
in occasioni speciali, e questa è una di quelle.
In questi giorni non mancherà il privilegiato pane in
tavola detronizzando per qualche giorno la regina della mensa: la polenta.
A questo miracolo contribuiva decisamente l’apporto
di qualche soldo portato dagli uomini che rientravano sia dall’emigrazione all’estero
sia in patria. Questo aiuto finanziario permetteva di comprare oltre agli
alimenti, un modesto capo di vestiario, un grembiule, forse un paio di scarpe
nuove e qualche altra cosetta necessaria al nucleo familiare. Con questo uno
spiraglio di gioia e d’allegria il Natale lo portava nelle famiglie, per poi
rientrare ben presto nel consueto vivere quotidiano di tutto l’anno. Fra tutto
questo c’è un elemento delle festività natalizie su cui s’impernia l’oggetto, l’argomento,
sul quale si svolgerà questo racconto ed è l’albero di Natale. Certo è che quest’emblematico
alberello non entrava nel preventivo delle spese familiari. Un vero pino ben adornato
neanche pensarci. Queste, dovuto alla ristrettezza dei mezzi, erano cose
suntuarie che solo i ricchi potevano permettersele. Un giovane pino non si
trovava facilmente nei boschi dei nostri dintorni poiché che questi crescono
spontaneamente in alta montagna e, se nelle zone urbane se ne vede qualcuno, è
in recinti privati piantati e gelosamente cresciuti dai proprietari.
Anche nella natura nel regno vegetale esiste il
parente povero dell’aristocratico pino.
Come il pino, sempreverde, con aghi e rami filiformi
però dall’aspetto informe e asimmetrico. E’ un arbusto conosciuto come
tamericcio e un tamericcio sarà il mio albero di Natale già localizzato nell’estate
scorsa andando a fare il bagno nel Tagliamento. Era situato su una rupe
scoscesa di una riva del fiume e pensai fin da quel momento che quell’alberello
avrebbe adornato la mia casa il prossimo Natale.
Passarono l’estate e l’autunno e arrivò l’inverno
freddo e rigido com’erano gli inverni di quel tempo. Arrivò anche il Natale e
il mio pensiero andava spesso al tamericcio destinato a trasformarsi nel mio
albero di Natale. Nei giorni che precedettero la festa il cielo si tornò grigio
scuro preannunciando pioggia o neve. Tre giorni prima di Natale mi svegliai al
mattino trovando due spanne di neve caduta durante la notte. Era il giorno
fissato per andare a tagliare il temericcio. Nel mio intimo sentii un’angoscia
profonda, dovuta al disagio e impedimento che si era interposto ai miei piani
dalla nevicata imprevista, temendo di dover rinunciare al mio alberello. L’albero
distava mezz’ora da casa per arrivare sul posto, in tempo normale, però con la
neve non avevo idea di quanto avrei impiegato per arrivarci. A mio favore avevo
solo la conoscenza del terreno su cui serpeggiava il sentiero che portava sul posto,
questo, però non toglieva la doppia difficoltà che costituiva la neve.
Con la poca ponderabilità che può contare un bambino,
fremevo ed ero impaziente, intimorito dall’incertezza di potercela fare. Decisi
di affrontare l’impresa che si era presentata difficile e rischiosa. Prima di
lasciare la casa presi una tazza di caffelatte, mi vestii adeguatamente, mi
armai di un coltellaccio e una corda adatti al caso e partii. Faceva freddo e
camminare nella neve era difficoltoso. Il primo tratto allontanandomi dal paese
non costituì alcun problema.
Le difficoltà incominciarono all’affrontare la
discesa verso il Tagliamento incontrando più neve del previsto che nascondeva
del tutto le tracce del sentiero. Scendevo cercando di indovinare come dirigere
i miei passi. A volte scivolavo per alcuni metri e il contatto con la neve mi
infreddoliva ancora di più e vi fu un momento in cui mi sentii mancare le
forze, mi si oscurò la visione e traballai temendo di cadere, sentii dei crampi
allo stomaco, mi fermai accovacciato sudando freddo con sintomi di perdita dei
sensi e questo sarebbe stato molto pericoloso, sarei stato preso dall’ipotermia
e di lì non sarebbe passato nessuno per sperare in un casuale soccorso e, ad
aggravare la situazione, i miei di casa non sapevano dove ero andato quella
mattina. Fortunatamente mi ripresi, riacquistai la mia temperatura corporea, potendo
dopo un po’ riprendere il cammino. Ho avuto tanta paura pensando al peggio, ma è
proprio vero che la volontà e la passione proiettate alla conquista di uno
scopo fanno miracoli e appianano i pericoli. Ci fu un momento in cui mi pentii
di aver intrapreso un’avventura simile. Comunque seguii fino in fondo
alla discesa che terminava in una gola dove un ruscello, ora ghiacciato,
sfociava verso il fiume. Di li vedevo, a qualche decina di metri, il tamericcio
che si profilava, con il suo verde bottiglia, sul biancore che lo circondava.
Ora dovevo affrontare una rapida salita per raggiungerlo. La sua vista mi dava
animo e m’incoraggiava a seguire.
Infilai il sentiero in salita e con il coltellaccio
toglievo la neve per facilitare l’appoggio dei piedi e rendermi più agevole la
faticosa arrampicata. Arrivai infine con difficoltà ai piedi dell’alberello.
Con il coltellaccio scavai un piano per appoggiare i piedi e incominciai a
tagliare il fusto alla base risultando più duro di quanto immaginavo, in ogni
caso continuai menando colpi fin quando cedette cadendo di lato e dovetti dar
mano alla corda per evitare che rotolasse per il ripido terreno. Lo legai e lo
trascinai sul sentiero. Decisi che il ritorno fosse dal lato opposto da dove
ero disceso. Sarebbe stata più ripida per un tratto la salita, però sarei
giunto sulla strada provinciale e da lì sarebbe stato facile trascinarlo fino a
casa. Iniziai a salire con l’oggetto di tanta fatica e tanto rischio procedendo
a passi corti e ad ogni passo uno strattone al tamericcio per avvicinarmelo.
Così fino sulla strada dove il procedere fu facile anche perché
provvidenzialmente passò un camion lasciando una carreggiata sulla neve che
approfittai per farne la mia corsia di marcia facilitandomi il traino dell’alberello
così fino ad arrivare finalmente a casa. Dovevo avere un aspetto ben trasandato
tanto da impressionare mia madre dicendomi: “Dove sei stato? Sei tutto bagnato,
pallido e sbrindellato”. Per non allarmarla non le dissi tutto ciò che mi era
capitato durante l’avventura appena conclusa. Al varcare la soglia di casa ho
avuto l’impressione di aver scampato un pericolo e mai mi sono sentito così
sicuro e riconfortato come quando chiusi la porta e mi avvolse il calore della
fiamma del ceppo che bruciava sul focolare. Mi sedetti vicino al fuoco, mangiai
qualcosa e, a poco a poco, passarono la stanchezza e il trauma subito per
seguire un impulso irrazionale nel momento sbagliato.
Fino a quel momento non avevo goduto l’incanto del
paesaggio innevato e, dimenticando i disagi che mi aveva causato nella mia
avventura, mi lasciai trasportare da quella visione fantastica, gioia di ogni
ragazzo, il contemplare quel manto bianco che crea un mondo irreale scolpito da
un magico scultore idealizzando quel paesaggio di sogno presente nel cuore di
ogni bambino. Il Natale innevato è la massima espressione, il più bel regalo
quando coincide con tale festività.
Intanto tra una gioia e un dolore era giunta la
vigilia e bisognava darsi da fare per allestire l’albero che avrei vestito con
cose povere ma con tanto amore. Incominciai tirando fuori da un cassetto le sei
candeline, quelle che per base avevano un morsetto per attaccarle ai rami.
Dovevo provvedere il resto e per conseguirlo andai dal fruttivendolo e comprai,
con i soldini risparmiati e con qualche monetina regalatami per servizi resi
comprando le sigarette ad uno, qualcos’altro al vicino di casa nella bottega,
dei mandarini, qualche mela, delle caramelle, carrube e tre cioccolatini.
Questo fu tutto ciò che comprai per adornare il mio albero di Natale. Devo far
notare che l’apatia dei miei genitori era dovuta, in questo caso, ad una certa
ignoranza che veniva dalla loro generazione, di tradizioni e di simboli
natalizi nonché l’osservanza dell’austerità economica vigente.
Consideravano sempre che l’albero di Natale fosse un
gioco da bambini e io questo gioco me lo sono preso completamente per me stesso
senza risentimenti per la loro indifferenza.
Con ciò che avevo comprato adornai il mio alberello e
per ultimo collocai le candeline e quando le accesi mi sembrò semplicemente
bello dandole una nota di allegria alla cucina non disponendo di altro luogo
per esibirlo. Così si riconciliò con me stesso quella pressante smania che da
giorni mi tormentava per vedere nella mia casa un albero di Natale. Era povero
il mio albero, però sentivo la stessa gioia, la stessa emozione con il mio
tamericcio come chi esibisce un vero pino in un grande e lussuoso salone
riccamente adornato con ghirlande dorate, ori e regali.
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