Nella traiettoria delle mie necessità c’è un lungo periodo trascorso
lontano dalla terra natia in altre latitudini di questo mondo.
Espatriato in Sud America, nel Venezuela, cercando migliori condizioni
di vita di quelle che mi poteva offrire in quel momento la mia patria. Fino al
momento di partire lavoravo come fotoreporter a Milano. Così partii con un buon
bagaglio di esperienze, consigli e forme sul come maneggiare questa attività.
Fra tutto questo mi rimasero chiari alcuni suggerimenti e insegnamenti,
talvolta detti e imposti con una certa pressione, al fine che venissero messi
in atto durante il lavoro. Ciò che tra l’altro mi rimase presente fu l’esortazione,
quando per varie ragioni l’attività si tornava stagnante, a uscire e
fotografare qualsiasi cosa che avesse carattere di attualità, di curiosità, di
interesse per il grande pubblico. Quindi giunsi nel Venezuela animato da questo
spirito di ricerca, di curiosità e interesse per tutto ciò che non fosse comune
o apparisse di una certa originalità. A voglia se in questo Paese esotico vi
erano cose interessanti nel campo del reportage. Mi diedi conto che se avessi
dovuto tradurre in immagini queste cose avrei dovuto farlo subito, prima che mi
assuefacessi di loro, poiché, se avessi messo del tempo di mezzo, non avrebbero
causato le stesse emozioni. Voglio far notare che in quel Paese non avrei
potuto, almeno al principio, esercitare il fotoreportage in quanto non
conoscevo la lingua, l’ambiente, il mezzo per pretendere di svolgere tale
attività. Ero emigrato per dedicarmi al lavoro di studio ed è ciò che feci per
tutto il lungo tempo che rimasi in Venezuela. A Milano comunque aspettavano
qualche mio reportage interessante su qualche argomento di questo Paese,
essendo rimasto tra noi un accordo informale che, se mi fosse presentata una
buona occasione, lo avrei fatto. Però al principio qui trovai un ambiente
piuttosto ostile, molto poco condiscendente. Certo che il virus del
fotoreporter lo avevo nel sangue e non mi abbandonò mai. Fin dai primi giorni
furono molte le cose e situazioni che si prestavano per essere tradotte in
immagini, documentare i grandi contrasti che più si evidenziavano nella vita
quotidiana e davano motivo a comparazioni, considerazioni, che si scontravano
con al nostra origine, con la nostra cultura, formatasi da un lungo processo
evolutivo. Sono certe manifestazioni primitive che perdurano ancora in una
certa fascia sociale che più mi colpirono e che si presentano come soggetto
alla testimonianza che vorrei dare a conoscere. Ci fu un’esperienza che volevo
tradurre, documentare fotograficamente, però non fu possibile per varie
ragioni, quindi decisi di viverla personalmente. Molto si è scritto sui Paesi
del Sud America, da romanzieri, narratori, novellisti, giornalisti, ma poco si è
detto di quel mondo magico, esoterico, che esiste ancora sfidando l’evoluzione
culturale e il modernismo. Nel Venezuela tra la mescolanza di razze sussiste il
metticiato e da li affiorano inevitabilmente per atavismo, pure dopo molti
secoli, usi, costumi, riti di eredità genetica. Inoltre appaiono comportamenti
che, anche questi, sono riflessi non dimenticati dei patimenti sofferti dalla
razza negra durante lo schiavismo e così anche dagli indios per lo sterminio e
le crudeltà sofferte, da parte dei conquistadores spagnoli, e la
discriminazione sofferta sia dagli uni che dagli altri, che li portò all’isolamento
sociale per secoli fin quando Simon Bolivar non liberò cinque nazioni
sudamericane che penavano sotto lo stesso regime oppressivo.
Altre manifestazioni di questo rango sociale vengono alla superficie da
radici ancestrali, espressioni magiche rese evidenti dalla “brujeria”
(stregoneria). Di grande importanza è la musica della razza nera che si esprime
maggiormente con strumenti a percussione costruiti in modo artigianale da
tronchi di legno scavati che, a seconda del diametro, daranno un suono diverso
e diversi sono i loro nomi: curbeta, mina, tambor e questi possono variare
secondo le regioni. Sono percossi, suonati con grande maestria e il loro
linguaggio, il loro ritmo è molto interessante nell’arte musicale, e risultano
suoni e ritmi non meno conturbanti, suggerendo voci misteriose di magia bianca
e nera. Destano tanto interesse questi ritmi, specie durante i loro
festeggiamenti che richiamano in massa la gente negra dove non mancano canti,
suoni e balli negroidi.
Non manca nelle loro feste la presenza di compositori, musici,
musicologi di fama mondiale, i quali asseriscono che se nella musica leggera
ritmica dovrà nascere un nuovo ritmo, la fonte sarà la musica negroide. I loro
festeggiamenti più solenni sono il 24 giugno, giorno di San Giovanni, dove,
oltre alla musica assordante dei tamburi, ci sono cortei, balli, il tutto
accompagnato da bevande alcoliche in quantità. Questa festa ha una
caratteristica unica ed è che, ogni uomo veste in frac, con i piedi scalzi,
callosi e polverosi, con cilindro, camicia bianca, cravatta adeguata,
rappresentando così una parodia dei loro padroni. Questo è il giorno della
rivincita burlesca verso i loro proprietari e risale ancora ai tempi dello
schiavismo dell’epoca coloniale. Il giorno di san Giovanni era permessa loro
questa farsa grottesca che si ripete ancora oggi nelle regioni dove risiedono i
discendenti degli schiavi sbarcati qui secoli fa, loro ancestri provenienti
dall’Africa.
Questa commedia che si ripete ogni anno forse trova una spiegazione nel
fatto che si svolge una volta all’anno, dentro la ristrettezza e la disciplina
in cui vivevano, fosse ordita perché sfogassero la repressione del risentimento
che nutrivano verso i predatori dei loro avi e verso l’oppressione dei loro
padroni bianchi.
Tutt’intorno alla vita spirituale dei negri, e avvolto in un manto di
mistero non facilmente penetrabile, intriso di feticismo, essoterismo,
occultismo, sorgono da questi fenomeni e trovano posto stregoni, sensitivi,
chiaroveggenti, indovini, avvolti nel mistero della magia bianca e nera. Da
tutto questo nacque la mia curiosità.
Questo mondo volevo tradurlo in immagini anche se si mostri con molta
riservatezza e se ne parli sommessamente come volendolo celare al cittadino
moderno, essendo un mondo di loro dominio inteso da loro che però materialmente
ha il suo lato speculativo e qui si apre lo spiraglio dell’accessibilità anche
ai bianchi. Non di rado ai colletti bianchi che accorrono per conoscere il loro
futuro politico, economico, salute, amore e altre predizioni che intendono
strappare al fato.
Personalmente non ho mai creduto e non crederò mai a queste
ciarlatanerie però da un lato non lascia di essere interessante e appetibile
dal punto di vista informativo. Per questo volevo conoscere qualcuno di questi
stregoni anche facendomi passare come…paziente bisognoso delle loro
prestazioni. Ebbi l’opportunità di avvicinarmi ad uno di loro grazie ad un mio
cliente il cui papà era un grosso possidente terriero in una località famosa
come residenza di stregoni che stando a ciò che si dice, è un paesino chiamato “Virongo”.
C’è ne uno in ogni famiglia tanto che vanta il nomignolo di “Pais de los brujos”
(paese degli stregoni); è una località distante dalla capitale Caracas un
centinaio di chilometri, abitata, quasi nella totalità, da negri ed è ovvio
dedurre che queste pratiche sono ereditate dai loro ancestri africani.
Virongo è ubicata nella regione di Barlovento, zona molto calorosa dove
ai tempi della colonia ubicarono gli schiavi, poi usati nella coltivazione di
cacao, banane, papaia e altri frutti tropicali.
Le aziende erano proprietà di signorotti, classe che formava la fascia
sociale danarosa di Cararcas, e le loro aziende erano tanto redditizie da
meritarsi l’attributo di “gran cacao” beneficiando di tali rendite. Con la
raccomandazione del mio cliente partii un giorno e, anche se con me portavo la
macchina fotografica, Julian Gonzalez, questo era il nome del mio cliente, mi
prevenne che non mi sarebbe permesso di fare fotografie, mi disse di tentare
però, anche se sicuramente si sarebbe negato di farsi fotografare. Ero in
cammino, dovevo arrivare e prendere contato con il “Brujo” Josè Luis Blanco,
questo era il suo nome. Giunsi in prossimità del Paese dopo essere transitato
per una strada di terra battuta, bordeggiata da alberi di palma e ai lati,
oltre questi, c’erano piante di cacao e banane che formavano una densa
vegetazione verde intenso.
Era una giornata caldissima, seguivo la mia strada lamentando il mal
funzionamento dell’aria condizionata dell’automobile, perciò sentivo un calore
pesante e molesto. Ad un certo punto vidi un campesino (contadino) montato su
un asinello col macete (coltellaccio tutto fare lungo quasi un metro)
appoggiato fra braccio e avambraccio all’altezza del gomito, come è
consuetudine andare per la gente di campagna di tutto il Venezuela. Approfittai
per chiedergli quanto mancava per arrivare al paese e mi rispose: “Està ahì
mismito” (poco distante). Anche questa è una risposta consueta di questi
informatori occasionali, però non corrisponde mai alla realtà poiché ahì
mismito è ancora lontano molti chilometri. Di fatto viaggiai ancora mezz’ora
prima di vedere le prime case di Virongo. Molte di queste sono di “bajareque”,
vale a dire costruite con pantano misto con paglia tagliata corta, e con questo
pastone si alzavano muri e pareti. Arrivai sulla piazza dove notai due botteghe
e un’osteria tipo saloon. Entrai nell’osteria per avere informazioni sulla residenza
di Josè Luis Blanco. Chiesi una bibita e guardai intorno rendendomi conto del
deterioramento dell’ambiente. Ad un tavolo c’erano tre uomini che giocavano a
domino, un altro era in piedi vicino al bancone che conversava con l’oste, un
uomo grassoccio in canottiera. Chiesi l’indirizzo di Josè Luis e, sia l’uomo
che l’oste, mi guardarono dall’alto in basso con aria interrogante, pensando
forse che fossi uno di quei forestieri che vengono a curiosare nel paese degli
stregoni. Non si sbagliavano, ero proprio uno di quelli, ma alla fine mi
diedero proprio l’indicazione per arrivare alla casa che cercavo. Non mi fu
difficile incontrarla per la bella pianta di bouganville di colore rosso che le
stava davanti e la copriva in buona parte. L’uomo, piuttosto corto di statura,
di pelle morena, stava sulla porta di casa, dietro di lui una donna di mezza età
spingeva la testa in avanti come per sentire meglio ciò che avrei detto. Parve
mi stessero aspettando, come se avessero avuto un segnale telepatico o avesse
funzionato il tam tam dando avviso della mia presenza. Lui mi scrutava con
curiosità e diffidenza allo stesso tempo. Quando gli dissi che mi mandava
Julian Gonzalez sparì dalla sua faccia la tensione accumulata pensando che
fossi un poliziotto in quanto, l’attività che esercitava, era illegale. Però le
forze dell’ordine pubblico erano molto tolleranti. Solo nel caso in cui questi
maghi commettessero frodi che trascendessero certi confini, e avessero causato
un certo scalpore, passavano qualche giorno di reclusione nella jefatura di
polizia (gendarmeria). Il nome di Julian Gonzalez fece colpo poiché il padre
era un grande proprietario terriero della zona quindi, direttamente o
indirettamente, dava lavoro a molta gente, beneficiando l’economia del luogo
così da renderlo il “Don” poderoso di Virongo. Quando stavo per varcare la
soglia della casa mi sentii fuori posto, disorientato, provando un senso di
ripugnanza per questo tipo di ciarlataneria. Visto l’ermetismo col quale
operava Josè, così di primo acchito non avrei ottenuto che un netto rifiuto al
mio proposito di fotografare la funzione, inoltre non c’era nessun altro in
quel momento che servisse da soggetto. Velocemente pensai di dimostrare che ero
lì per essere io il….paziente bisognoso di scongiuro anche se questo esulava
completamente il motivo iniziale dei miei piani.
Inventai il problema iella, male andamento degli affari, del negozio e
tutto questo si rifletteva nell’economia familiare. Creai un’atmosfera
credibile che giustificasse la mia presenza, chiedendo il suo intervento. Nell’esporre
i miei malanni pare sia stato sufficientemente convincente. L’uomo era
rientrato nella normalità dopo lo sguardo interrogante e la diffidenza
iniziale. La casetta di bajareque con pavimento di terra battuta, perciò che mi
era dato vedere, era composta di due stanze e uno sgabuzzino. Una delle due
stanze, quella con la porta di entrata, era la più grande, era un ambiente
povero, pochi mobili di legno, un tavolo e quattro sedie di fattura piuttosto
grossolana; in un angolo trovava posto un altarino sul quale spiccavano vari
moccoli di candele accesi la cui luce tremolante illuminava delle statuette in
gesso di personaggi conosciuti e venerati dalle masse popolari, come il negro
Felipe, il negro Miguel, il dottor Gregorio Hernandez e non mancava la “reina”
Maria Lonza Deità indigena, personaggio mitico, leggendario nella cultura
popolare venezuelana e per lei sola dovrebbe scriversi un capitolo a parte che
scoprirebbe una saga bella e interessante.
Non mancavano neanche immagini cattoliche, cristiane. Tra l’altro
spiccavano il cuore di Gesù, la Vergine Maria e altri santi. Questa mescolanza
di immagini pagane e cristiane è frequente nelle loro manifestazioni di fede e
per usarle in tali funzioni stregoniche.
Sul tavolo addossato ad una parete si notavano un mazzo di frasche,
quattro candele, dei fiammiferi e un vasetto contenente una sostanza granulare
che non mi fu possibile identificare. La donna stava rannicchiata in un angolo
della casa con gli occhietti vispi e attenta a tutto ciò che succedeva intorno.
Poi mi resi conto che era l’assistente di Brujo. L’uomo mi disse di togliermi
la camicia e la canottiera. Si avvicinò all’altarino e accese due moccoli di
candela, sembrava raccogliersi in se stesso, concentrandosi, preparandosi al
rito. Quando si voltò e venne verso di me il suo volto era rilassato, era
scomparsa in lui l’espressione interrogante e scrutatrice del momento in cui
apparvi sulla porta di casa sua. Mi accettò per la raccomandazione di Julian ma
per conto suo, sono certo, che nelle sue conclusioni sul mio riguardo dedusse
di avere davanti uno che cercava l’avventura, più che lo scongiuro a dei
supposti malanni. Era logico che così pensasse. Ero bianco, giovane e inoltre
straniero. Era inconsueto che un soggetto con queste caratteristiche cercasse
il suo intervento. Raccolse il mazzo di frasche, mi si avvicinò e incominciò a
spazzolarmi dalla testa ai piedi girandomi attorno. Mentre mi frascheggiava
gesticolava e mormorava frasi incomprensibili ma entro queste potei distinguere
dei nomi come Javè Babaloo e anche Gesù e Maria. I primi due sono divinità
pagane appartenenti all’esoterismo africano, usate dai “santeros” nel loro
culto indiscreto e superstizioso verso i santi, molto diffuso a Cuba e in altre
isole dei Carabi.
La donna a questo punto della funzione si avvicinò a Josè e gli diede un
grosso sigaro acceso che si mise a fumare soffiandomi il fumo su tutto il
corpo. Poi stese una stuoia sul pavimento ma, prima di farmi stendere, l’uomo
si avvicinò al tavolo e bevve dalla bottiglia qualche sorsata, poi mi si
avvicinò e mi spruzzò in faccia e sul torace ciò che mi parve fosse del ron
(rum) o caňa blanca (un distillato della canna da zucchero di infima qualità).
Il peggio fu quella….sputata in faccia che non mi aspettavo mista all’alito del
fumo che produsse un odore nauseabondo rimanendo inorridito, schifato. La mia
prima reazione fu quella di uscire correndo da quel rancno (casupola) ma
dovetti contenermi, non senza uno sforzo di volontà. Chiusi gli occhi e respirai
profondamente mentre l’uomo mi diceva di stendermi sulla stuoia. Lo feci mentre
la donna metteva al suolo due candele accese ai lati delle caviglie mentre Josè
seguiva spazzolandomi con le frasche borbottando e gesticolando. Dentro quel
buco faceva caldo, molto caldo. L’uomo sudava e operava quasi sempre con gli
occhi chiusi, prendendo posizione ai miei quattro lati. La donna ad un certo
punto accese il contenuto del vasetto e nella stanza si propagò del fumo che
odorava di incenso misto a candela. Alla fine con questo mi sembrò che il rito
volgesse al termine quando l’uomo si avvicinò all’altarino, chinò la testa sul
petto restando qualche minuto in quella posizione , poi ritornò verso di me
dicendomi che la seduta era terminata, che potevo rimettermi la camicia.
Chiesi di lavarmi poiché la spruzzata e il fumo mi si erano appiccicati
alla pelle e ciò mi causava la nausea. La donna mi indicò un’uscita opposta all’entrata
che dava ad un patio (cortiletto) dove trovai un lavello di cemento e a lato un
secchio d’acqua. Mi lavai, pagai i 20 bolivares dell’onorario, equivalenti a
quel tempo ad una giornata di lavoro di un operaio qualificato, al cambio in
lire italiane a quarantamila lire. Josè Luis Blanco mi disse che da quel
momento le cose sarebbero migliorate. Certo che miglioreranno, fuori di li
riprendendo il mio cammino tutto sarà rose e fiori dopo il broglio in cui mi
ero cacciato e che avevo dovuto sopportare. Prima di uscire per riprendere il
mio ritorno a Caracas gli chiesi se avessi potuto tornare con un cliente…paziente
e fare delle fotografie di tutta la funzione. Mi guardò sorpreso della proposta
che gli feci e si negò decisamente anche offrendogli del denaro extra in
compenso. Aveva paura della polizia, non tanto per i tre o quattro giorni di
reclusione nella “jefatura” per esercitare un’attività illegale ma dell’estrorsione
da parte di qualche agente che poi non sarebbe finita mai più.
Nella rete “de los Brujos”, di tanto in tanto, ci casca qualche donnetta
che, poco a poco, viene ripulita dei suoi risparmi restando con il borsellino
vuoto. Da questo la vigilanza e il controllo di questa gente da parte della
polizia locale. Solo quando le frodi trascendono i confini locali possono dar
luogo a castighi pesanti. Normalmente nel campo di queste macchinazioni
esoteriche c’è una grande tolleranza e le ragioni di ciò sono molte. Meglio
lasciar correre le acque e non intorbidirle!!!
Alla fine fallirono tutte le mie proposte, anche la promessa di non
pubblicarle nel Venezuela. Non mi rimase che salutare Josè Luis Blanco, montare
in macchina e riprendere la via del ritorno a Caracas. Mentre stavo lasciando
indietro le ultime case di Virongo dovetti frenare bruscamente per lasciar
attraversare la strada ad un grosso serpente boa che lentamente passava dall’altro
lato. Sapevo che questa, oltre ad essere una zona di stregoni, è anche una zona
di serpenti ma non pensavo di vederne uno attraversarmi la strada. Era un
animale grande non meno di tre o quattro metri e mi è sembrato non finisse mai
di passare. Ero già un po’ alterato alla fine della funzione e questo incontro
accentuò la tensione che a poco a poco però svanì avvicinandomi a casa mia.
Durante il percorso pensai all’avventura vissuta restandomi qualcosa di
positivo: aver tentato di documentare qualcosa di quel mondo della magia nera,
dell’occultismo che tutti abbiamo una certa avidità di conoscere. Associai questo fatto coincidente ad un
reportage che realizzammo io e il padrone dell’agenzia di Milano dove lavoravo,
a Como e Bormio, che fu pubblicato con il titolo “Le vie del tabacco” e
lavorammo nella stessa atmosfera di riservatezza, segretezza e mistero. Si
trattava del contrabbando, principalmente di sigarette, e altre cose dalla
Svizzera. Anche qui con formale promessa di non fotografare volti e altri
indizi che potessero compromettere luoghi e persone involucrati in questo
lavoro illegale che allora si svolgeva in ogni zona di confine.
Per concludere devo manifestare la mia sorpresa scoprendo, al mio
rientro in Italia, ed è anche pubblicamente nota, la presenza di una grande
quantità di maghi anche qui, che operano con le stesse funzioni di Josè Luis
Blanco e forse conoscono anche loro la magia nera, oltre a quella bianca, per
raggirare il prossimo credulone che capita loro nella rete.
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