10 de noviembre de 2011

LA VIA DELLE MELE


Esistono molte vie che non sono propriamente vie cittadine, ma vie prescelte e create dal commercio dalla malavita per il transito di mercanzie lecite o proibite dalla legge. Queste vie possono chiamarsi: del ferro, della seta, della marijuana, del tabacco, della coca.
Non voglio riferirmi a queste vie ma alle vie friulane che si snodano sfiorando i cortili delle nostre case, vie nostrane buone e sicure, cariche di storia e in tempi ormai passati, percorse a piedi dalle nostre donne, mamme, sorelle, nonne con una gerla in spalla ricolma di frutti, dirette ai mercati di San Daniele o Spilimbergo: era la “via delle mele”. Erano loro, le “rivendicules”, che si addossavano questo faticoso lavoro con abnegazione e buona disposizione, per sopperire alle necessità familiari. Le vie cui mi riferisco vengono da Castelnovo, Oltrerugo, Costabeorchia, Val d’Arzino, e cito queste essendo quelle che mi hanno visto nascere, ma potrebbero essere tutte quelle della riviera pedemontana del Friuli occidentale, le cui genti accorrevano con i loro prodotti, che erano più o meno gli stessi, alle cittadine e grossi centri abitati più vicini e con lo stesso modus operandi. Non era impresa facile coprire la distanza scendendo dalle loro valli per raggiungere sia uno che l’altro mercato con una pesante gerla sulle spalle ricolma di frutta che poi non erano solo mele ma fichi, pere, noci, prugne e quant’altro si producesse su terreni che per la loro natura non permettevano altre colture. Chi disponeva vicino a casa di una piccola parte di terreno piano poteva seminarci gli ortaggi di consumo abituale, e questo era già un privilegio. Il lavoro di una famiglia, di un gruppo familiare, era uguale a quello di tanti altri nello stesso ambiente e si svolgeva, con poche varianti, allo stesso modo. Nei giorni di mercato all’alba, Giacomo sveglia la moglie Maria. Lei si alza ancora intorpidita, per le poche ore di sonno e per la stanchezza del giorno prima trascorso nella raccolta dei frutti e nei preparativi, in modo che il giorno seguente tutto fosse pronto per partire alla volta del mercato. Scendeva le scricchiolanti scale di legno e lo faceva in punta di piedi per non svegliare Tonino, il figliolo, che avrebbe voluto accompagnarla. Giunta in cucina, per prima cosa apriva la porta, come faceva ogni giorno, dava uno sguardo al cielo scrutando le intenzioni del tempo, timorosa che questo si mettesse a male e, quando questo sfortunatamente succedeva erano guai. Infatti si guastavano i frutti più delicati che non tolleravano dilazioni per essere smerciati, e ciò avrebbe compromesso l’esigua economia familiare. Rassicurata dal buon tempo, si preparava il caffè nel quale avrebbe intinto un pezzo di pane e questa era la sua colazione che avrebbe dovuto sostenerla fino a mezzogiorno. Per il pranzo provvedeva a mettere in un tovagliolo del formaggio e qualche fetta di polenta poiché il ricavato dalla vendita della frutta non poteva essere speso per pranzare in un ristorante, doveva usarsi per le necessità familiari e qualche spesuccia personale. Calzava i “scarpets”, calzatura leggera di tela, fatta a mano da lei stessa, con suola di stoffa trapuntata fittamente grossa come un dito, e tomaia di velluto a volte ricamata con fiori. Scarpette tipiche del Friuli e della Carnia. Andava poi dalla vicina di casa, compagna di mercato, a sapere se era pronta per partire. Nelle vicinanze, strada facendo, si incontravano con altre donne della borgata, anch’esse dirette al mercato con le gerle in spalla e lo stesso genere di frutti. Allo spuntar del giorno già si incontravano camminando sulla strada bianca avvolte nella bruma stagnante mattutina e scomparivano in lontananza come macchie informi, indefinite, che si dissolvevano lasciando la strada vuota. Il percorso per giungere al mercato richiedeva qualche ora ma questo tempo non era sprecato. Strada facendo il tempo veniva utilizzato sferruzzando, tessendo una maglia, una calza, dei guanti di lana per difendersi dal freddo nel prossimo inverno. Arrivate sui posti di vendita si ubicavano: a San Daniele sulla piazza ai piedi della scalinata del duomo, a Spilimbergo dalla piazza Garibaldi fin dopo la ex banca del Friuli all’inizio dei portici. Nelle ore del primo pomeriggio si avviavano al ritorno alle proprie borgate, alle proprie case, a cuor contento se la vendita era stata proficua, tristi se nella gerla era rimasta ancora frutta da smerciare. Per tutte il ritorno era più agevole essendo le gerle alleggerite del tutto o in buona parte.
Questo in tempi passati era un modo per guadagnarsi il pane quando fatica e sacrificio erano motivo di orgoglio, se questo era il prezzo da pagare per soddisfare in parte le necessità familiari.
A queste donne da parte mia, a distanza di molte decadi, devo chiedere perdono, sicuramente dovrà giungere all’aldilà, per una burla di mal gusto che a quei tempi, da ragazzino incosciente, perpetravo insieme ad una combriccola di coetanei. Legavamo un portamonete o un vecchio portafoglio con uno spago, lo posavamo sulla strada dove dovevano passare queste “rivendicules”, coprivamo lo spago con la polvere lasciando scoperta solo l’attrattiva esca che, al vederla, si precipitavano per coglierla. Ma in quel momento noi, nascosti sotto il ciglio della strada, tiravamo lo spago e l’oggetto magicamente spariva.
Ancora oggi, già anziano e ricco di molte primavere, pur considerandola una ragazzata, provo un senso di mortificazione per tale gesto che non doveva essere riservato a loro. Inevitabile coprotagonista  e complice fu la “via delle mele”.



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