4 de noviembre de 2011

SOGNO E REALTA’

Risalendo agli inizi della mia esistenza, all’età di tre o quattro anni, i miei fratelli maggiori, spesso, mi collocavano su una sedia e mi dicevano: “Canta!…” e io cantavo. Non ricordo, non so più cosa cantavo, però cantavo. Forse qualche ninna nanna che mia madre a sua volta cantava a me, o qualche motivo che mio padre sommessamente intonava di tanto in tanto. Da quell’età durante tutta la mia vita seguii cantando in molte occasioni e circostanze. Attualmente già anziano, quando il buon umore e il benestare me lo permettono, ritorno alle mie vecchie canzoni che ancor oggi rappresentano l’identità musicale della nostra Italia canterina. Ovviamente non contando più la passione e l’emozione degli anni giovani. Mi diverto suonando il mandolino e cantando con quel po’ di voce che il tempo non è riuscito ancora a demolire del tutto, accompagnandomi con la chitarra. Nella mia infanzia ricordo che quando cantavo mi accompagnavo con due coltelli da cucina, meglio detti da tavolo, di cui mi impossessavo e uscivo nel cortile tenendoli per il manico e battendo le loro lame contro un sasso o un mortaio di pietra posto a lato della porta d’entrata della casa accompagnando così il mio cantare. E’ innegabile che la musica, e soprattutto il canto, sono sempre state la mia grande passione, la mia vocazione più sentita. Timidamente, con quel pudore innato di un ragazzo nato e cresciuto in un paesello di campagna, pensai che avrei potuto riuscire con esito in quest’arte. Ma oltre a varie circostanze avverse come lo stato della guerra in cui l’Italia era involucrata, esisteva nella mentalità della nostra gente un sentimento di biasimo per chi volesse intraprendere una qualsiasi carriera artistica, e questo atteggiamento non aiutava affatto chi, per avendo le doti, desiderasse prendere la via della cultura artistica. Come accennai la guerra mi colse sul fiore dell’età, quando sarebbe stato il momento di muoversi nella direzione che poteva propiziare una soluzione favorevole alla mia aspirazione. In quelle condizioni non era possibile soddisfare altre intenzioni che non fosse quella di uscire indenne e vivo dal confiltto che incombeva totalmente sulla nostra esistenza. Inoltre prestavo il servizio militare di istanza a Pordenone dov’era la sede del mio reggimento. Paradossalmente in quei momenti di tensione, preoccupazione e timori, causati dallo stato di guerra in cui vivevamo, si presentò l’occasione ideale che avrebbe potuto darmi l’opportunità di iniziare la tanto desiderata carriera di cantante. In caserma corse la voce che gente del mondo artistico stava cercando, tra i soldati, elementi con attitudini artistiche, che fossero professionisti o dilettanti, presenti nelle caserme e guarnigioni del pordenonese, cantanti, musicisti, comici, imitatori, macchiettisti, insomma qualsiasi genere di talento artistico professassero. Non me lo feci ripetere due volte, mi presentai in fureria, mi inclusero nella lista dei concorrenti dicendomi che a metà luglio (era l’anno 1943) mi presentassi al teatro “Verdi” di Pordenone per un’audizione di fronte ad una giuria o commissione di esperti. Mi chiesero il titolo della canzone che mi proponevo di cantare. Risposi che sarebbero state due: “Una chitarra nella notte” e “Non passa più”, canzoni in voga del genere melodico come conveniva al mio stile e al mio timbro di voce. Il 14 luglio, come previsto, mi chiamarono per la prova. Fui puntuale, entrai in teatro, una ragazza mi condusse sul palcoscenico dove era ubicato un quartetto di musici: pianista, batterista, chitarrista e un fisarmonicista.
Trovarmi in un autentico teatro per adempiere ad un proposito personale, che fino ad allora avevo solo sognato, mi intimidiva e temevo che l’emozione tradisse la mia volontà e compromettesse il mio comportamento, e soprattutto la mia voce, in quel momento così importante e decisivo per me. Feci alcuni passi veloci verso il microfono e riuscii a dominare i miei nervi nel momento in cui il pianista con un sorriso mi disse: “Stai tranquillo che tutto andrà bene”. Fece un cenno agli altri musici e mi disse di cantare la prima canzone. Udendo le prime note della breve introduzione incontrai la padronanza di me stesso incoraggiato anche per l’atteggiamento invitante dei musici, specialmente del pianista, che stava più vicino a me. Così scomparve del tutto il panico scenico e diedi inizio a “Una chitarra nella notte”. La mia voce usciva chiara e le modulazioni ben dominate mi lasciavano pensare che, forse, avrei ottenuto l’esito che speravo. Quasi mi dimenticai della giuria ubicata nelle prime file di poltroncine, nella penombra, che dovevano dare il verdetto definitivo alla mia esibizione e diedi inizio alla seconda canzone “Non passa più” che risultò altrettanto buona, tranne che nel ritornello perché attaccai un attimo prima dell’orchestra, però non fecero caso visto che il programma richiedeva altre prove. Alla fine il risultato fu positivo, fui approvato e sarei stato convocato nuovamente una volta terminate le audizioni di tutti i restanti concorrenti, che erano molti. Uscii dal teatro euforico e contento e rientrai in caserma desideroso di comunicare, quasi con impulsività infantile, la buona notizia. Il reclutamento di artisti tra i soldati sarebbe servito per formare una compagnia di rivista per intrattenere i militari nelle guarnigioni stanziate in Italia e nelle adiacenze dei fronti di guerra nel quali l’Italia era impegnata. Questo programma non si realizzò impedito dal sequestro e arresto di Mussolini il 25 luglio del 1943. Questo fatto, già passato alla storia, creò delle turbolenze politiche e conseguenti misure di sicurezza tra le quali la sospensione della libera uscita dalle caserme che si protasse per varie settimane. Conseguentemente per me sfumò l’unica occasione che poteva rappresentare il trampolino di lancio di una carriera artistica e soddisfare le mie aspirazioni di diventare cantante professionale. Rimasi amareggiato e deluso ma infine mi rimase l’autoconsolazione e mi convinsi che possedevo le doti per riuscire nell’intento.
Già anteriormente a questa avventura avevo avuto due casi di apprezzamento delle mie condizioni vocali. Il primo fu all’età di 10-12 anni quando in paese arrivarono due frati in missione liturgica, erano predicatori, e uno di loro riuniva noi ragazzi per cantare, accompagnandoci con l’armonio. Ascoltandomi, elogiando la mia voce, mi dispose davanti al gruppo così da servire come conduttore del piccolo coro. Era un frate molto dinamico, tra l’altro colto e conoscitore della musica. Il secondo riconoscimento delle mie doti canore fu durante una manifestazione ai tempi del regime fascista. Fui prescelto e inviato per una decina di giorni, ad un “campo” estivo per avanguardisti a Tarcento, e un giorno inquadrati nel campo sportivo di fronte ad un gerarca col suo seguito venuto da Roma, ci fecero cantare degli inni patriottici. Io stavo nella terza riga dello schieramento e cantavo come tutti gli altri compagni. Ad un certo momento il gerarca esce dal gruppo che ci stava di fronte, mi si avvicina, mentre stavamo cantando, e mi dice con un certo tono di comando: “Tu mettiti davanti a tutti e continua a cantare.” Seguii cantando “Fuoco di vesta”. Rimase fino alla fine dell’inno di fronte a me, poi mi disse: “Hai una voce intonata e squillante, bravo”. Si ritirò al suo posto mentre io, tra il lusingato e il sorpreso, proseguii cantando con maggior lena. Questi episodi, nel momento in cui si produssero, esultarono il mio ego e la mia autostima circa le mie doti canore considerandomi un buon dilettante dal gradevole canto.
Cantai comunque, con e per gli amici, e tante serenate volarono e si insinuarono per finestre e balconi nelle notti stellate ascoltate dalle mie conquiste giovanili, dalle belle ragazze che chissà, le inducevano a sognare cose meravigliose in un’epoca in cui regnava ancora il romanticismo. Suonavo il mandolino e a volte mi accompagnava la chitarra, e queste menestrellate appagavano il desiderio di esprimere ciò che sentivo e mi premeva dentro. Quando pensai di fare del canto una professione ero anche ben conscio del fatto che avrei dovuto studiare musica e, dal momento che non era nella mie possibilità frequentare un conservatorio o altri istituti che comportassero un costo elevato, e desideroso di fare qualcosa per me da me stesso, scelsi ciò che in quel momento mi conveniva. In un paese non lontano dalla mia residenza, che si raggiungeva in mezz’ora di bicicletta, conoscevo una famiglia di musici dotati e stimati che oltre a suonare con il loro complesso in feste ballabili davano lezioni di musica teorica e strumentale. Due volte la settimana andavo da loro per apprendere teoria e solfeggio, con mira, completato il ciclo teorico di dedicarmi allo studio del violino. Alle volte arrivavo a casa loro e la signora mi diceva: “Sono nel campo a lavorare”. Dovevano dedicarsi anche all’agricoltura poiché la professione di musico non bastava per coprire le necessità familiari. Pur di non perdere la mia lezione ripartivo verso il campo alla ricerca di uno dei due, padre o figlio, e un gelso o un altro albero frondoso che desse una buona ombra, era il testimonio del mio scandire le note musicali. 
Nonostante la mia intenzione di alimentare la mia vocazione musicale intervenne la guerra a troncare i miei piani e ogni possibilità di riprenderli e rimetterli in atto per riuscire nel mio intento. Tentavo ogni possibilità affrontando a volte anche circostanze estreme ma non fu proprio possibile seguire il mio proposito. Una parentesi positiva la ebbi in Svizzera dove rimasi un anno emigrato per motivi di lavoro. Certe persone che conobbi e frequentavo, sapendo che conoscevo la musica, si sono offerte di darmi lezioni di violino. Fu così che ricevetti i miei primi insegnamenti strumentali includendomi nella loro orchestra sinfonica nel tempo in cui rimasi in quel paese. Fu un periodo gradevole, non solo dal lato musicale, ma anche per l’affettuosa cordialità che mi prodigarono. Comunque anche se è pur vero che in quel periodo passato tra loro ricevetti una spinta nel campo musicale la realtà della mia vita mi riservava la necessità di dover dedicarmi al lavoro. Produrre e soddisfare tante necessità immediate che la situazione e le circostanze del dopoguerra imponevano. A malincuore, però questo implicava l’addio definitivo alle mie ambizioni musicali. Di li in poi cantai per me solo immaginandomi presuntamene di farlo di fronte ad un auditorio plaudente. Seguii cantando nell’età matura e anche oggi anziano non è scemata la voglia di farlo. Da ragazzo quando passavo di fronte alla casa di un vecchio vicino di casa fischiettando, ed ero quasi un virtuoso, diceva: “Quel ragazzo ha un canarino in gola”. Il canto comunque fu il modo con cui manifestavo il mio stato d’animo, le mie passioni e a volte lo facevo anche in situazioni e in momenti impropri quando la voglia di cantare diveniva incontenibile. Varie volte alla scuola di disegno tecnico il professore, scoprendomi a canticchiare sommessamente durante le lezioni, mi ammonì mandandomi a cantare sotto la loggia. Altra mortificazione la ebbi quando fui assunto come aiutante meccanico di un’impresa che stava costruendo una strada del mio paese, e a lato del reparto automotore dove lavoravo c’era anche un fabbro che alle volte mi chiamava per girare la manovella della forgia e mentre la giravo cantavo a voce bassa e mi rendevo conto se la canzone era conosciuta anche da lui, con discrezione faceva la seconda voce e non gli dispiaceva il canticchiare insieme. Grave si faceva la cosa quando i pezzi di ferro che dovevano scaldarsi fino ad un certo punto, e questo era compito mio, diventavano incandescenti e mandavano scintille in ogni direzione, vale a dire si bruciavano. Allora l’uomo si molestava e mi rimproverava come meritavo. Distratto dal canto cullato dal girare monotono della manovella, dal soffio della forgia, dal calore che emanava, succedeva l’inevitabile. Meno male che l’uomo si rabboniva di li a poco e non  mi serbava nessun risentimento, era una buona e brava persona. Ero giovane e questi fatti corressero il mio comportamento nell’età adulta.era impossibile il connubio del canto con la concentrazione che richiedevano certe attività. Quando io venni al mondo la radio non si conosceva ancora. Apparse 8 o 10 anni dopo in casa di qualche privilegiato signorotto del paese che poteva darsi il lusso di possederla, e sentire una voce che usciva da una cassa fu una tale sorpresa accompagnata dall’ignoranza che per un tempo fu un tabù, e si pensava che nell’interno ci fosse un omino che parlasse. Dieci anni dopo, alla fine degli anni 30 del secolo scorso già il mistero su questo apparato aveva ceduto il posto alle nuove tecnologie e la gente incominciava a conoscere e saperne di più sulle radio riceventi. Ma chi si dedicasse alla loro costruzione o riparazione era ancora considerato un mago, e io conobbi uno di questi maghi. Era un elettricista di Montereale e come hobby si dedicava alla riparazione di radio, conversando gli dissi che mio padre era fotografo ed io ero il suo aiutante. Molto interessato, mi propose di andare a Montereale Valcellina a fargli qualche foto familiare e, in cambio, mi avrebbe dato una radio. Possedere una radio, che pochi ancora avevano, per me era qualcosa che mi avrebbe consentito di ascoltare i miei canti favoriti, le orchestre, tanta musica, quanta avessi potuto ascoltare. Affare fatto. Caricai l’ingombrante macchina e i suoi accessori sulla bicicletta e partii per Montereale, distante una trentina di chilometri da Pinzano, feci le foto e alla consegna mi diede la radio. Era un apparato primitivo con il mobile a forma di cappella, tipo eterodina, che al sintonizzare le stazioni produceva un sibilo che andava da un tono acuto ad uno più grave e al termine sintonizzata la stazione ricercata. Per il suo funzionamento richiese l’installazione di un’antenna costituita da un lungo filo di rame. Tutto fu fatto come le istruzioni ricevute, e al fine funzionò. Il clic dell’accensione causava una rara e intensa emozione e il farlo creava un gesto rituale poiché non era ancora scomparso ancora il misterioso shock della sua presenza nelle nostre case. Di notte la ricezione era migliore e al rincasare dalle mie uscite notturne la accendevo e quando coincideva di incontrare un programma con i miei cantanti favoriti, sia di opera lirica che di musica leggera, come Beniamino Gigli, Toti dal Monte, Tito Schipa, Villa, Tajoli, Nilla Pizzi ed altri e altre cantanti di quei tempi, mi commuovevo fino alle lacrime. Spegnendola per andare a letto non mi sembrava vero, reale, di aver assistito a tale meravigliosa avventura musicale ascoltando i miei cantanti preferiti a casa mia. Più tardi, 20 o 25 anni dopo, apparve la televisione, ma oserei dire, senza togliere i suoi meriti, che non superò l’euforia popolare manifestata all’approvazione della radio sui mercati di massa. Nel secolo scorso dopo l’automobile, l’aereoplano, il computer e altre invenzioni per molti usi e confort al servizio dell’uomo, la radio occupò sempre un posto speciale nel suo uso. Dagli anni cinquanta in poi, frutto della scienza e tecnologie moderne, appariva ogni giorno qualcosa di nuovo, così da farci l’abitudine di non emozionarci più di tanto. Queste righe dedicate alla radio furono una variazione del tema proposto, ma non troppo discosto, poiché la radio, per me, prima del suo stato fisico è canto, è musica, perciò in armonia con la mia vocazione. A volte mi domando, anche considerando le circostanze avverse nel momento di realizzarmi nel campo musicale, pur anche così, forse non avrò imbroccato la strada giusta? Mi sarà mancato il coraggio di sondare? Forse il mio carattere era piuttosto timido? Intanto il tempo passò e la mia età non era più l’ideale per cercare ciò non si concretò a suo tempo. Comunque affidandomi con caparbietà alla speranza che non muore mai, e conscio che oggi, già quasi novantenne, dovrò lasciare presto questo paradiso terrestre, penso che nell’altro regno ci sia un posticino per me tra i serafini o i cherubini, i quali comprensivi e compianti, mi riservino un clarino o un’arpa per suonare e cantare vagando di nube in nube per la volta celeste, allietando angeli e anime nella beatitudine eterna. Pretenzioso vero? E’ solo parte del sogno.

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