Risalendo
agli inizi della mia esistenza, all’età di tre o quattro anni, i miei fratelli
maggiori, spesso, mi collocavano su una sedia e mi dicevano: “Canta!…” e io
cantavo. Non ricordo, non so più cosa cantavo, però cantavo. Forse qualche
ninna nanna che mia madre a sua volta cantava a me, o qualche motivo che mio
padre sommessamente intonava di tanto in tanto. Da quell’età durante tutta la
mia vita seguii cantando in molte occasioni e circostanze. Attualmente già
anziano, quando il buon umore e il benestare me lo permettono, ritorno alle mie
vecchie canzoni che ancor oggi rappresentano l’identità musicale della nostra
Italia canterina. Ovviamente non contando più la passione e l’emozione degli
anni giovani. Mi diverto suonando il mandolino e cantando con quel po’ di voce
che il tempo non è riuscito ancora a demolire del tutto, accompagnandomi con la
chitarra. Nella mia infanzia ricordo che quando cantavo mi accompagnavo con due
coltelli da cucina, meglio detti da tavolo, di cui mi impossessavo e uscivo nel
cortile tenendoli per il manico e battendo le loro lame contro un sasso o un
mortaio di pietra posto a lato della porta d’entrata della casa accompagnando
così il mio cantare. E’ innegabile che la musica, e soprattutto il canto, sono
sempre state la mia grande passione, la mia vocazione più sentita. Timidamente,
con quel pudore innato di un ragazzo nato e cresciuto in un paesello di
campagna, pensai che avrei potuto riuscire con esito in quest’arte. Ma oltre a
varie circostanze avverse come lo stato della guerra in cui l’Italia era
involucrata, esisteva nella mentalità della nostra gente un sentimento di
biasimo per chi volesse intraprendere una qualsiasi carriera artistica, e
questo atteggiamento non aiutava affatto chi, per avendo le doti, desiderasse
prendere la via della cultura artistica. Come accennai la guerra mi colse sul
fiore dell’età, quando sarebbe stato il momento di muoversi nella direzione che
poteva propiziare una soluzione favorevole alla mia aspirazione. In quelle
condizioni non era possibile soddisfare altre intenzioni che non fosse quella
di uscire indenne e vivo dal confiltto che incombeva totalmente sulla nostra
esistenza. Inoltre prestavo il servizio militare di istanza a Pordenone dov’era
la sede del mio reggimento. Paradossalmente in quei momenti di tensione,
preoccupazione e timori, causati dallo stato di guerra in cui vivevamo, si
presentò l’occasione ideale che avrebbe potuto darmi l’opportunità di iniziare
la tanto desiderata carriera di cantante. In caserma corse la voce che gente
del mondo artistico stava cercando, tra i soldati, elementi con attitudini
artistiche, che fossero professionisti o dilettanti, presenti nelle caserme e
guarnigioni del pordenonese, cantanti, musicisti, comici, imitatori,
macchiettisti, insomma qualsiasi genere di talento artistico professassero. Non
me lo feci ripetere due volte, mi presentai in fureria, mi inclusero nella
lista dei concorrenti dicendomi che a metà luglio (era l’anno 1943) mi
presentassi al teatro “Verdi” di Pordenone per un’audizione di fronte ad una
giuria o commissione di esperti. Mi chiesero il titolo della canzone che mi
proponevo di cantare. Risposi che sarebbero state due: “Una chitarra nella
notte” e “Non passa più”, canzoni in voga del genere melodico come conveniva al
mio stile e al mio timbro di voce. Il 14 luglio, come previsto, mi chiamarono
per la prova. Fui puntuale, entrai in teatro, una ragazza mi condusse sul
palcoscenico dove era ubicato un quartetto di musici: pianista, batterista,
chitarrista e un fisarmonicista.
Trovarmi in un autentico teatro per adempiere ad un proposito personale,
che fino ad allora avevo solo sognato, mi intimidiva e temevo che l’emozione
tradisse la mia volontà e compromettesse il mio comportamento, e soprattutto la
mia voce, in quel momento così importante e decisivo per me. Feci alcuni passi
veloci verso il microfono e riuscii a dominare i miei nervi nel momento in cui
il pianista con un sorriso mi disse: “Stai tranquillo che tutto andrà bene”.
Fece un cenno agli altri musici e mi disse di cantare la prima canzone. Udendo
le prime note della breve introduzione incontrai la padronanza di me stesso
incoraggiato anche per l’atteggiamento invitante dei musici, specialmente del
pianista, che stava più vicino a me. Così scomparve del tutto il panico scenico
e diedi inizio a “Una chitarra nella notte”. La mia voce usciva chiara e le
modulazioni ben dominate mi lasciavano pensare che, forse, avrei ottenuto
l’esito che speravo. Quasi mi dimenticai della giuria ubicata nelle prime file
di poltroncine, nella penombra, che dovevano dare il verdetto definitivo alla
mia esibizione e diedi inizio alla seconda canzone “Non passa più” che risultò
altrettanto buona, tranne che nel ritornello perché attaccai un attimo prima
dell’orchestra, però non fecero caso visto che il programma richiedeva altre
prove. Alla fine il risultato fu positivo, fui approvato e sarei stato
convocato nuovamente una volta terminate le audizioni di tutti i restanti
concorrenti, che erano molti. Uscii dal teatro euforico e contento e rientrai
in caserma desideroso di comunicare, quasi con impulsività infantile, la buona
notizia. Il reclutamento di artisti tra i soldati sarebbe servito per formare
una compagnia di rivista per intrattenere i militari nelle guarnigioni
stanziate in Italia e nelle adiacenze dei fronti di guerra nel quali l’Italia
era impegnata. Questo programma non si realizzò impedito dal sequestro e
arresto di Mussolini il 25 luglio del 1943. Questo fatto, già passato alla
storia, creò delle turbolenze politiche e conseguenti misure di sicurezza tra
le quali la sospensione della libera uscita dalle caserme che si protasse per
varie settimane. Conseguentemente per me sfumò l’unica occasione che poteva
rappresentare il trampolino di lancio di una carriera artistica e soddisfare le
mie aspirazioni di diventare cantante professionale. Rimasi amareggiato e
deluso ma infine mi rimase l’autoconsolazione e mi convinsi che possedevo le
doti per riuscire nell’intento.
Già anteriormente a questa avventura avevo avuto due casi di
apprezzamento delle mie condizioni vocali. Il primo fu all’età di 10-12 anni
quando in paese arrivarono due frati in missione liturgica, erano predicatori,
e uno di loro riuniva noi ragazzi per cantare, accompagnandoci con l’armonio.
Ascoltandomi, elogiando la mia voce, mi dispose davanti al gruppo così da
servire come conduttore del piccolo coro. Era un frate molto dinamico, tra
l’altro colto e conoscitore della musica. Il secondo riconoscimento delle mie
doti canore fu durante una manifestazione ai tempi del regime fascista. Fui
prescelto e inviato per una decina di giorni, ad un “campo” estivo per
avanguardisti a Tarcento, e un giorno inquadrati nel campo sportivo di fronte
ad un gerarca col suo seguito venuto da Roma, ci fecero cantare degli inni patriottici.
Io stavo nella terza riga dello schieramento e cantavo come tutti gli altri
compagni. Ad un certo momento il gerarca esce dal gruppo che ci stava di
fronte, mi si avvicina, mentre stavamo cantando, e mi dice con un certo tono di
comando: “Tu mettiti davanti a tutti e continua a cantare.” Seguii cantando
“Fuoco di vesta”. Rimase fino alla fine dell’inno di fronte a me, poi mi disse:
“Hai una voce intonata e squillante, bravo”. Si ritirò al suo posto mentre io,
tra il lusingato e il sorpreso, proseguii cantando con maggior lena. Questi
episodi, nel momento in cui si produssero, esultarono il mio ego e la mia
autostima circa le mie doti canore considerandomi un buon dilettante dal
gradevole canto.
Cantai comunque, con e per gli amici, e tante serenate volarono e si
insinuarono per finestre e balconi nelle notti stellate ascoltate dalle mie
conquiste giovanili, dalle belle ragazze che chissà, le inducevano a sognare
cose meravigliose in un’epoca in cui regnava ancora il romanticismo. Suonavo il
mandolino e a volte mi accompagnava la chitarra, e queste menestrellate
appagavano il desiderio di esprimere ciò che sentivo e mi premeva dentro.
Quando pensai di fare del canto una professione ero anche ben conscio del fatto
che avrei dovuto studiare musica e, dal momento che non era nella mie
possibilità frequentare un conservatorio o altri istituti che comportassero un
costo elevato, e desideroso di fare qualcosa per me da me stesso, scelsi ciò
che in quel momento mi conveniva. In un paese non lontano dalla mia residenza,
che si raggiungeva in mezz’ora di bicicletta, conoscevo una famiglia di musici
dotati e stimati che oltre a suonare con il loro complesso in feste ballabili
davano lezioni di musica teorica e strumentale. Due volte la settimana andavo
da loro per apprendere teoria e solfeggio, con mira, completato il ciclo
teorico di dedicarmi allo studio del violino. Alle volte arrivavo a casa loro e
la signora mi diceva: “Sono nel campo a lavorare”. Dovevano dedicarsi anche
all’agricoltura poiché la professione di musico non bastava per coprire le
necessità familiari. Pur di non perdere la mia lezione ripartivo verso il campo
alla ricerca di uno dei due, padre o figlio, e un gelso o un altro albero
frondoso che desse una buona ombra, era il testimonio del mio scandire le note
musicali.
Nonostante la mia intenzione di alimentare la mia
vocazione musicale intervenne la guerra a troncare i miei piani e ogni
possibilità di riprenderli e rimetterli in atto per riuscire nel mio intento.
Tentavo ogni possibilità affrontando a volte anche circostanze estreme ma non
fu proprio possibile seguire il mio proposito. Una parentesi positiva la ebbi
in Svizzera dove rimasi un anno emigrato per motivi di lavoro. Certe persone
che conobbi e frequentavo, sapendo che conoscevo la musica, si sono offerte di
darmi lezioni di violino. Fu così che ricevetti i miei primi insegnamenti
strumentali includendomi nella loro orchestra sinfonica nel tempo in cui rimasi
in quel paese. Fu un periodo gradevole, non solo dal lato musicale, ma anche per
l’affettuosa cordialità che mi prodigarono. Comunque anche se è pur vero che in
quel periodo passato tra loro ricevetti una spinta nel campo musicale la realtà
della mia vita mi riservava la necessità di dover dedicarmi al lavoro. Produrre
e soddisfare tante necessità immediate che la situazione e le circostanze del
dopoguerra imponevano. A malincuore, però questo implicava l’addio definitivo
alle mie ambizioni musicali. Di li in poi cantai per me solo immaginandomi
presuntamene di farlo di fronte ad un auditorio plaudente. Seguii cantando
nell’età matura e anche oggi anziano non è scemata la voglia di farlo. Da
ragazzo quando passavo di fronte alla casa di un vecchio vicino di casa
fischiettando, ed ero quasi un virtuoso, diceva: “Quel ragazzo ha un canarino
in gola”. Il canto comunque fu il modo con cui manifestavo il mio stato
d’animo, le mie passioni e a volte lo facevo anche in situazioni e in momenti
impropri quando la voglia di cantare diveniva incontenibile. Varie volte alla
scuola di disegno tecnico il professore, scoprendomi a canticchiare
sommessamente durante le lezioni, mi ammonì mandandomi a cantare sotto la
loggia. Altra mortificazione la ebbi quando fui assunto come aiutante meccanico
di un’impresa che stava costruendo una strada del mio paese, e a lato del
reparto automotore dove lavoravo c’era anche un fabbro che alle volte mi
chiamava per girare la manovella della forgia e mentre la giravo cantavo a voce
bassa e mi rendevo conto se la canzone era conosciuta anche da lui, con
discrezione faceva la seconda voce e non gli dispiaceva il canticchiare
insieme. Grave si faceva la cosa quando i pezzi di ferro che dovevano scaldarsi
fino ad un certo punto, e questo era compito mio, diventavano incandescenti e
mandavano scintille in ogni direzione, vale a dire si bruciavano. Allora l’uomo
si molestava e mi rimproverava come meritavo. Distratto dal canto cullato dal
girare monotono della manovella, dal soffio della forgia, dal calore che
emanava, succedeva l’inevitabile. Meno male che l’uomo si rabboniva di li a
poco e non mi serbava nessun
risentimento, era una buona e brava persona. Ero giovane e questi fatti
corressero il mio comportamento nell’età adulta.era impossibile il connubio del
canto con la concentrazione che richiedevano certe attività. Quando io venni al
mondo la radio non si conosceva ancora. Apparse 8 o 10 anni dopo in casa di
qualche privilegiato signorotto del paese che poteva darsi il lusso di
possederla, e sentire una voce che usciva da una cassa fu una tale sorpresa
accompagnata dall’ignoranza che per un tempo fu un tabù, e si pensava che
nell’interno ci fosse un omino che parlasse. Dieci anni dopo, alla fine degli
anni 30 del secolo scorso già il mistero su questo apparato aveva ceduto il
posto alle nuove tecnologie e la gente incominciava a conoscere e saperne di
più sulle radio riceventi. Ma chi si dedicasse alla loro costruzione o
riparazione era ancora considerato un mago, e io conobbi uno di questi maghi.
Era un elettricista di Montereale e come hobby si dedicava alla riparazione di
radio, conversando gli dissi che mio padre era fotografo ed io ero il suo
aiutante. Molto interessato, mi propose di andare a Montereale Valcellina a
fargli qualche foto familiare e, in cambio, mi avrebbe dato una radio.
Possedere una radio, che pochi ancora avevano, per me era qualcosa che mi
avrebbe consentito di ascoltare i miei canti favoriti, le orchestre, tanta
musica, quanta avessi potuto ascoltare. Affare fatto. Caricai l’ingombrante
macchina e i suoi accessori sulla bicicletta e partii per Montereale, distante
una trentina di chilometri da Pinzano, feci le foto e alla consegna mi diede la
radio. Era un apparato primitivo con il mobile a forma di cappella, tipo
eterodina, che al sintonizzare le stazioni produceva un sibilo che andava da un
tono acuto ad uno più grave e al termine sintonizzata la stazione ricercata.
Per il suo funzionamento richiese l’installazione di un’antenna costituita da
un lungo filo di rame. Tutto fu fatto come le istruzioni ricevute, e al fine
funzionò. Il clic dell’accensione causava una rara e intensa emozione e il
farlo creava un gesto rituale poiché non era ancora scomparso ancora il
misterioso shock della sua presenza nelle nostre case. Di notte la ricezione
era migliore e al rincasare dalle mie uscite notturne la accendevo e quando
coincideva di incontrare un programma con i miei cantanti favoriti, sia di
opera lirica che di musica leggera, come Beniamino Gigli, Toti dal Monte, Tito
Schipa, Villa, Tajoli, Nilla Pizzi ed altri e altre cantanti di quei tempi, mi
commuovevo fino alle lacrime. Spegnendola per andare a letto non mi sembrava
vero, reale, di aver assistito a tale meravigliosa avventura musicale
ascoltando i miei cantanti preferiti a casa mia. Più tardi, 20 o 25 anni dopo,
apparve la televisione, ma oserei dire, senza togliere i suoi meriti, che non
superò l’euforia popolare manifestata all’approvazione della radio sui mercati
di massa. Nel secolo scorso dopo l’automobile, l’aereoplano, il computer e
altre invenzioni per molti usi e confort al servizio dell’uomo, la radio occupò
sempre un posto speciale nel suo uso. Dagli anni cinquanta in poi, frutto della
scienza e tecnologie moderne, appariva ogni giorno qualcosa di nuovo, così da
farci l’abitudine di non emozionarci più di tanto. Queste righe dedicate alla radio
furono una variazione del tema proposto, ma non troppo discosto, poiché la
radio, per me, prima del suo stato fisico è canto, è musica, perciò in armonia
con la mia vocazione. A volte mi domando, anche considerando le circostanze
avverse nel momento di realizzarmi nel campo musicale, pur anche così, forse
non avrò imbroccato la strada giusta? Mi sarà mancato il coraggio di sondare?
Forse il mio carattere era piuttosto timido? Intanto il tempo passò e la mia
età non era più l’ideale per cercare ciò non si concretò a suo tempo. Comunque
affidandomi con caparbietà alla speranza che non muore mai, e conscio che oggi,
già quasi novantenne, dovrò lasciare presto questo paradiso terrestre, penso
che nell’altro regno ci sia un posticino per me tra i serafini o i cherubini, i
quali comprensivi e compianti, mi riservino un clarino o un’arpa per suonare e
cantare vagando di nube in nube per la volta celeste, allietando angeli e anime
nella beatitudine eterna. Pretenzioso vero? E’ solo parte del sogno.
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