Hop, hop, hop, scandito e ripetuto a tempo ritmato era ciò
che si udiva proveniente dall’interno di un cortile che dava sulla strada dove
in quel momento stavo transitando. Incuriosito al sentire quella voce, essendo
il portone socchiuso, introdussi la testa e vidi Ivan a braccia conserte che
stava tentando qualche passo di una frenetica danza russa, ma, come di
consueto, era ubriaco e il suo ballo risultava una caricatura di quelle famose
danze in cui, di tanto in tanto, i suoi compagni solevano esibirsi facendolo
molto bene, con buon ritmo, e figure quasi acrobatiche.
Katiuska, la moglie di Ivan, dalla porta della casa dove
erano alloggiati, lo guardava con commiserazione e visibilmente
contrariata. Katiuska era una
donna bella, alta e ben formata, bionda con grandi occhi azzurri. Montava a
cavallo come un’esperta e provetta amazzone, non smentendo in questo la fama
della sua razza. Erano cosacchi di stirpe tartara stanziati nelle steppe della
Russia meridionale e sulle rive del Don, arrivati nei nostri paesi ingannati
dai nazisti che invasero la Russia durante la seconda guerra mondiale dicendo
loro che le nostre regioni, Friuli e Carnia principalmente, erano territori
abbandonati dalle rispettive popolazioni per fuggire alla guerra. Quindi terra,
case e ogni bene era a loro disposizione per fondare la loro nuova patria.
A Pinzano arrivarono nel settembre del 1944. In quel giorno
si parse la voce tra la gente del paese: “I cosacchi, i cosacchi, arrivano i
cosacchi”. Il disagio, ma anche la curiosità erano evidenti tra le persone
visibilmente concitate nell’attesa di vedere le facce di questa gente esotica
di cui avevano solo un’idea attraverso i racconti dei romanzieri che
riportavano le loro vicende. Dall’alto del colle che sovrasta il paese si
poteva scorgere lontani tornanti della strada che si snoda tortuosa e da questa
alzarsi delle nuvole di fumo bianco. Era la polvere mossa dalle carrette, dagli
zoccoli dei cavalli e altri carriaggi dei quali si servivano per la loro locomozione.
Giunsero con le loro famiglie, donne, vecchi, bambini e le
loro masserizie, un popolo completo che veniva a stabilirsi nei nostri paesi,
nelle nostre case. Vedendoli da vicino, più che le loro fattezze mongoloidi, ci
sorprese lo stato trasandato del loro abbigliamento, la visibile mancanza d’igiene
personale e, più avanti, scoprimmo anche altre tare proprie della loro razza.
Arrivati tra noi si resero conto subito di essere stati
ingannati e burlati dai nazisti. Incontrarono le case occupate dalla nostra
gente, legittimi proprietari. Nessuno era fuggito, qui la guerra si faceva
notare in molte forme negative però non c’era un fronte, una linea di
combattimento. In certe località d’interesse strategico anche la nostra regione
fu oggetto di bombardamenti a ponti e linee ferroviarie però ciò non produsse l’esodo
come nella guerra 15-18 quando molta gente dovette allontanarsi e cercar
rifugio altrove come profughi, essendo allora queste zone teatro di guerra.
In questo conflitto la gente rimase nelle proprie case
vivendo come sempre, ovviamente, condizionata da molte penurie e sofferenze e a
questi patimenti si aggiunse quello che i cosacchi non vollero accettare di
alloggiare in locali pubblici come avevano disposto le autorità civili, scuole,
capannoni, o altro stabile adeguato per accogliere gruppi numerosi di persone,
ma vollero farlo in seno alle nostre famiglie, interponendosi ai civili. Ciò
per evitare eventuali attacchi da parte dei partigiani le cui formazioni erano
attive nella nostra regione e questa fu la ragione per cui i tedeschi portarono
qui i cosacchi, per contenere e arginare il più possibile le operazioni
partigiane.
Ci trovammo così con due o tre di loro alloggiati nelle
nostre case. Tra l’altro si preparavano i loro pasti con alimenti rubacchiati
qua e là poiché i tedeschi non gli davano né viveri né armamenti adeguati e
sufficienti alle loro necessità, per alimentarsi e per difendersi. Perciò come è
nelle loro tradizioni e abitudini vivevano di razzia.
Organizzavano delle scorrerie nelle borgate o in qualsiasi
luogo per provvedersi di fieno per i cavalli e di ogni altra cosa sulla quale
posassero gli occhi e che poteva essergli utile. Di notte erano costanti le
incursioni nei pollai. Erano noti per la loro dedizione all’alcol e tracannavano qualsiasi bevanda alcolica, a volte
anche tossica, come può essere l’alcol denaturato. I cosacchi erano fedeli
servitori dello zar e costituivano reparti delle truppe regolari del suo
esercito. Si servivano di loro particolarmente per sedare tumulti, sommosse o
qualsiasi manifestazione contraria al regime zarista, o che potesse offuscare
la propria immagine. Erano degli abilissimi cavallerizzi e temibili nei loro
interventi. In compenso delle loro prestazioni gli era permessa la razzia delle
località coinvolte e in questi casi le loro azioni si trasformavano in
scorrerie banditesche. Saccheggiavano, rubavano, estorcevano, violentavano le
donne e si impadronivano di tutto ciò che potessero trasportare lasciando morte
e desolazione al loro passaggio.
Con l’avvento della rivoluzione russa nel 1917 e l’instaurazione
al potere del regime comunista furono assassinati lo zar e tutta la famiglia
Romanov. I cosacchi furono perseguitati e molti di loro rinchiusi in campi di
concentramento o di sterminio. Per i tedeschi non fu difficile ingannarli
approfittando del loro risentimento contro il regime vigente in Russia e con
false promesse li convogliarono verso il Friuli e la Carnia.
Come collaborazionisti, masnadieri, al servizio dei nazisti,
non possono essere compatiti e tollerate le loro azioni perché anche loro, come
i loro padroni, hanno lasciato una scia nefasta al loro passaggio per il Friuli
e specialmente in Carnia. Per ciò che mi riguarda personalmente devo lamentare
l’aggressione a mio padre. Per derubarlo fu atterrato con un colpo alla testa
col calcio del fucile, gli spararono poi un tiro ma fortunatamente la
pallottola gli passò di striscio sul cuoio capelluto. Le conseguenze furono
molto gravi ma sopravvisse.
La guerra è uno stato anomalo che può succedere durante la
nostra esistenza, ne siamo succubi senza volerlo, e siamo coinvolti ed esposti
a situazioni estreme, soffrendo le conseguenze di questo stato di violenza e
chi sopravvive, sia pure con le lesioni nell’anima e nel corpo, dovrà
ringraziare la provvidenza comunque, di essere ancora in vita.
Fra le pieghe di queste violenze, sotto la pressione della
paura, l’uomo può perdere il senso civile della ragione e il raziocinio dei
suoi atti. Ma sempre può sorgere l’eccezione e affiorare nell’animo sentimenti
compassionevoli verso il nemico che un momento prima volevamo andasse fuori dai
piedi. E’ il caso di mia madre che nei giorni di fine guerra ha avuto parole di
commiserazione verso due cosacchi che avevamo in casa e che a conoscere il
proprio destino piangevano con la testa appoggiata sul tavolo. Diceva: “sono
così giovani e sicuramente avranno anche loro una mamma che ansiosa li aspetta”.
E’ meraviglioso, dentro quel marasma di emozioni che causa l’essere coinvolti
nella guerra, lasciare il sopravvento all’amore, al perdono al posto del
risentimento e all’odio.
Un altro fatto che conferma ciò che è appena scritto qui
sopra è che Katiuska, pur conoscendo e sapendo che nella casa di fronte viveva
la mia fidanzata e spesso ci vedeva insieme, e lei era cosacca e nemica, non
dimenticava di essere donna, in varie occasioni si atteggiava seduttrice
facendo risaltare ciò di cui era ben dotata, si avvicinava insinuante un po’
troppo, e se i nostri idiomi non si capivano, un altro linguaggio era ben
comprensibile, conosceva l’arte della seduzione. Infine era donna e tutte le
donne nascono dotate dell’arte per sedurre e conquistare gli uomini che sempre
sono più ingenui. Io facevo il tonto per non trovarmi coinvolto in un’avventura
che per varie ragioni doveva essere evitata. Prima di tutto frenare,
mortificare il mio orgoglio maschilista, la più delicata e importante, potevo
essere accusato di collaborazionismo con il nemico, Ivan…il terribile, avrebbe potuto
squartarmi con la spada.
Il motivo che mi dava l’opportunità di vedere spesso la
cosacca è che viveva di fronte alla casa della mia ragazza che io frequentavo
spesso. Qualsiasi intimità più in là di “Dasvidania” (saluto russo) sarebbe
stato un guaio che non volevo succedesse. Per ultimo Katiuska era bella sì, ma
la poca igiene personale, e l’alito di aglio e cipolla che lei come tutti i
cosacchi mangiava in abbondanza, avrebbe tenuto a distanza il più temuto degli
uomini, forse meno Ivan, che oltre all’aglio e cipolla doveva aggiungere i
miasmi dell’alcol.
Ciò che mi fa ricordare Katiuska non sono le sue attitudini
deduttive ma una sera che, come tante altre, ero in casa della mia ragazza mi
si avvicinò e con cipiglio minaccioso mi prese per il bavero della giacca e mi
disse: “Tu partisan!” e tirando il bavero per la punta aggiunse “Americana!”
riferendosi al giaccone che portavo. Rimasi un momento impacciato e timoroso,
poi dissi a mia volta. “No partisan!” Parlando all’infinito, accompagnai con un
gesto simulando un aereo e facendone il rumore, “San Daniele caduto aereo
americano, io prendere questo”.
Era vero che era caduto un aereo, un bombardiere, a San
Daniele e casualmente lo vidi cadere, trovandomi con la bicicletta molto vicino
al posto, per curiosità assistendo ad un fatto così straordinario, insieme ad
altra gente accorsa, mi avvicinai all’aereo non con l’intenzione di
impossessarmi di qualcosa, arrivai a vedere solo un morto negro. In quel
momento giunsero due fascisti con il moschetto e ci spararono ai talloni per
allontanarci.
Comunque aveva ragione lei, ero partigiano e la giacca era
la parte superiore di una tuta di un pilota inglese. Mi era stata regalata da
un maggiore inglese capo della missione militare della quale facevo parte come
autista nelle formazioni partigiane. Durante il grande rastrellamento nell’autunno
del 1944, sciolte le formazioni fino alla prossima primavera, rimanemmo liberi
di raggiungere le nostre case. Io potei superare lo sbarramento delle truppe
tedesche, cosacche e missini della repubblica di Salò, che ci stavano braccando
nella zona pedemontana della Val Tramontina, e dopo varie peripezie arrivai a
casa mia con la giacca in questione.
Temevo che la cosacca, che in seno alle sue truppe aveva
qualche gerarchia di comando, potesse valersene per arrestarmi o causarmi qualche
noia, però non lo fece e il problema “giacca” non ebbe altro seguito. In quei
tempi non era raro vedere le nostre ragazze vestire camicette e altri indumenti
fatte con la tela dei paracadute inglesi o americani discesi dai nostri cieli a
rifornire le formazioni partigiane di viveri, armi e altre vettovaglie
necessarie alla causa.
Un fatto strano devo aggiungere a questi aneddoti e brevi
storie di cosacchi. Finita la guerra negli anni cinquanta emigrai in Venezuela
dove esercitavo il mio mestiere di fotografo e un giorno mi chiamarono per fare delle fotografie in
occasione di una festa familiare. Giunto sul posto mi resi subito conto che
erano stranieri e chiesi di dove fossero, quale era la loro provenienza e mi
dissero che erano russi.
A loro volta mi domandarono la mia provenienza e dissi che
ero italiano, di Udine. Una delle donne presenti mi disse che conosceva
Spilimbergo. L’uomo che le stava a lato la interruppe bruscamente con una
gomitata al fianco e uno sguardo fulminante facendola a tacere. Era evidente
che erano cosacchi, forse gli stessi che aggredirono mio padre. Questa sì che
fu una strana e rara coincidenza, incontrare a diecimila chilometri di distanza
questi residui di guerra che dieci anni prima causarono tante sofferenze alla
gente dei nostri paesi.
Tutte le vicende narrate sono lo specchio di una realtà
vissuta. Vive la speranza che la crescita della cultura crei uomini savi
illuminati, che sappiano evitare le guerre che lasciano solo degenerazione,
patimenti, sofferenze e dolore, e le generazioni future godano di pace,
giustizia e libertà.
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