9 de noviembre de 2011

MIA MADRE


Mai mi passò per la mente scrivere qualcosa sulla personalità di mia madre. Ma incontrando spesso molti conoscenti che mi parlano di lei con tanta simpatia e cordialità, decisi di farlo, poiché attraverso loro emergono dalle nebbie del tempo aspetti, condizioni e particolari della sua vita che danno merito alla sua memoria e lo faccio per tutti quelli che la conobbero, la stimarono, e le hanno voluto bene.
Madre, le cinque lettere che formano questo nome mi sono così care che un pudico ritegno mi inibisce per scrivere con scioltezza cose che ricordino la nostra convivenza. Una delle ragioni che mi spinge a farlo è che tu non fosti solo una donna che si consumò fra le quattro pareti domestiche tra i fornelli e i tegami. Fosti anche, nella tua modesta e minuta persona, un personaggio pubblico. Fosti bidella nelle scuole elementari fra bambini che ora sono già anziani e ancora ricordano quando passavi tra i banchi a riempire d’inchiostro i calamai, o quando qualcuno di loro giocando e correndo nel cortile durante la ricreazione, cadeva, e tu gli curavi le ferite con lo stesso amore come fossero tuoi figli. Eri un’eccellente cuoca e per diversi anni alimentasti i bambini che frequentavano la colonia elioterapica giù sulle rive del Tagliamento.
Anche questi ti ricordano e non si sono dimenticati della squisitezza dei tuoi minestroni come solo tu li sapevi preparare, la pastasciutta, le patatine fritte al rosmarino, e il resto degli alimenti che completavano la loro dieta.
Ma non solo dentro del perimetro del tuo paese, ma anche fuori di questo, sei ricordata per la tua integrità morale, la tua gentilezza, la tua disponibilità. Così ti comportavi anche con qualsiasi persona occasionale che incontrassi nel tuo che fare quotidiano. Mi sorprendono gratamente le tante persone che ti ricordano a molti anni dalla tua scomparsa, questo significa che hai lasciato una luminosa scia nella traiettoria della tua vita. Con umiltà scrivo di te che fosti madre mia, ma nello stesso tempo nutro un pensiero riverente per tante altre buone madri che ugualmente meriterebbero essere ricordate. Tu già non sei tra noi e scrivo di te per darti a conoscere meglio a tutti quelli che ti hanno stimata e voluto bene, e lo faccio con un sano impulso privo di qualsiasi stimolo vanitoso.
Io non sono poeta per scriverti un poema che porti alla superficie, alla luce, tutta la brillantezza che emanava dalla tua immagine, come lo hanno fatto Gogol, De Amicis, Pascoli, Beecher e tanti altri insigni scrittori che hanno saputo creare un ritratto della madre esaltando le virtù, le manifestazioni d’amore e l’eroicità nel sacrificio per i figli, valori che ci restano incollati nel nostro essere per portarli con noi fino alla tomba. Prova di questo fu quando assistii agli ultimi spasmi agonici di mio fratello ormai novantenne e in un filo di voce che ancora gli restava, mamma fu l’ultima parola che pronunciarono le sue labbra.
Quante cose sapevi fare madre, e risolvere nel momento opportuno quando le circostanze richiedevano una soluzione, come durante la grande crisi del 1929 che ridusse critica la nostra condizione familiare e nostri piatti passarono dall’aragosta alla sardina. Durante la seconda guerra mondiale che mancavano gli alimenti ed era veramente difficile trovare qualcosa da mettere nel piatto all’ora dei pasti tu trovavi sempre il modo di sfamare i tuoi figli e non poche volte la soluzione la trovavi nei prati circostanti la casa. Raccoglievi delle erbe, che tu conoscevi, e da queste dopo cucinate ne usciva un purè che accompagnato con polenta di mais era una pietanza deliziosa. Il nome di tale composto era: lidum o pistum.
Vorrei appostare a che le nuove generazioni non conoscono queste erbe commestibili e solo come dato curioso voglio segnare i loro nomi nella nostra lingua friulana, poiché non li conosco in altro linguaggio. Pestelac, malve, capeles di predi, pivides di pan e vin, confenon, plantai e sclupit.
Eri capace di fare molte cose con le tue mani, però la tua vocazione era destreggiarti nell’arte culinaria, fare la cuoca, e ci sei riuscita. Sposalizi, battesimi, comunioni e altre ricorrenze mamma Maria era chiamata per arricchire le mense con le tue squisite e prelibate vivande. In casa cucinavi, tra i tuoi piatti forti era il coniglio e mentre si cucinava e ti dovevi assentare io ero l’incaricato di vigilare la cottura. Mi dicevi: “Guarda che deve cuocere “dasi adasi” (adagio adagio) e nel “spolert” (cucina a legna), metti di tanto in tanto un paletto di legno e rimuovi delicatamente aggiungendo, se necessaria, mezza tazzina d’acqua ”. Così non solo venni a conoscenza di qualcuno dei tuoi segreti culinari, ma divenni un esperto nel cosificare la fiamma, che è molto importante per il buon esito di una buona cucina. E quando dal tegame si diffonde quel delizioso aroma che invade l’intorno, non si può resistere la tentazione di prendere uno zampino e gustare il sapore delle erbe aromatiche, le spezie e altri componenti del condimento che portavano il tuo marchio segreto risultando semplicemente una squisitezza. Risultava poi che quel coniglio si riduceva ad un esemplare di sole tre gambe e tu dandotene conto conoscevi già il mistero di quell'anomalia.
Altra qualità era dotata la tua personalità, la bontà. Quando uno qualsiasi dei tuoi quattro figli ti diceva di aver visto un mendicante per le vie del paese lo mandavi a cercare e mai andava via dalla nostra casa con lo stomaco vuoto.
Ora restiamo fra noi tra le cose di casa nostra, giunse l’epoca che ero diventato un giovanotto con certe esigenze e certe necessità, mi piaceva andare a ballare, quando si presentava l’occasione e dovevo salvare le apparenze con le ragazze che invitavo. Al papà chiedevo denaro e mi dava sempre poco e gli dicevo, ricevendo le poche lire che mi dava, che un giorno avrei foderato il suo tavolo da lavoro con carte da “100”. Tu mamma aggiungevi altro, poco, però, risultava sempre poco. A te mamma dicevo che avrei comprato una nuova bicicletta o un vestito di gala, cosa che muoveva un velato e chissà ad un incredulo sorrisino. Un giorno nella tua camera, madre, scopersi qualcosa di voluminoso appeso sotto un cappotto appeso all’attaccapanni. Era una borsetta nera di cuoio e nell’interno conteneva un buon pacchetto di monete di diversi piccoli tagli, quello di più valore era di dieci lire, questi erano pochi, gli altri erano da cinque, da due e da una lira. Questa scoperta mi permise di arrotondare qualcosa in più per le mie piccole spese. Questo gruzzoletto erano le rimanenze della spesa giornaliera e ti servivano per comprarti qualcosa di tanto in tanto di tua necessità.
Nel dopoguerra, riaprendosi il mercato del lavoro nei paesi europei, ebbi la fortuna di avere un contratto di lavoro in Svizzera, così migliorarono le mie condizioni economiche. Al ritorno in Italia a fine contratto, compii la promessa che avevo fatto a papà. A te mamma confessai dei miei piccoli furti nella tua borsetta, cosa che tu ti eri già data conto della mancanza del denaro, sebbene io avessi usato l’accortezza di non far diminuire il volume cambiando i biglietti da cinque e dieci lire, reintegrandoli con monete da una o due, in modo che il volume fosse lo stesso, ma la quantità in valore era notevolmente diminuita. Con questa confessione ebbe fine la perplessità dell’ammanco e anche a te diedi per decuplicato il maltolto in forma malandrina.
Fin da molto giovane mi preoccupai delle ristrettezze economiche della mia famiglia e mi tormentava il pensiero di come avrei potuto migliorare la situazione. Anch’io, come mio padre, varcai l’Oceano in cerca di fortuna. Lui lo fece dopo il crollo del 1929 che lasciò la nostra famiglia sul lastrico. La dea bendata per lui rimase cosi, bendata e sorda, senza apportargli nessun miglioramento economico. Io emigrai dopo la seconda guerra mondiale, quando lui aveva già lasciato questo mondo. Rimase la mamma e a lei riuscii a dare una certa tranquillità economica e mi compiacevo ogni volta che le mandavo un assegno che lei cambiava in una banca di Spilimbergo. Mi raccontano che quando andava a prendere la corriera per recarsi a cambiare il suo assegno indossava la sua roba migliore: vestito nero con colletto di pizzo bianco, lo spolverino e i guanti neri. Così tutta in ghingheri, magari con i suoi vestiti un po’ fuori moda, residui di tempi migliori, andava in banca a cambiare il cheque che le mandavo ogni mese. A mia volta in un rientro in Italia fui alla stessa banca e, visto il mio cognome, mi chiesero se fossi il figlio di quella donnetta così e così, dandomi i dettagli di mia madre. Compresi che anche gli impiegati che avevano avuto da fare con lei erano stati conquistati dalla sua grazia e simpatia.
Mamma la tu avita non si differenzia da quella di tanti tuoi simili, fatta di lati e bassi, di gioie e dolori. Sicuramente un giorno sereno e gioioso fu, quando, per una vacanza, venni in Italia e un mattino molto presto mi svegliò un dolce canto di una voce quasi fosse quella di un bambino. Incuriosito per sapere di chi era quella voce e quel cantare cosi di buon ora, aprii la finestra che dava sull’orto e lì eri tu alle prese con i tuoi pomodori ed eri proprio tu che cantavi. Il tuo canto mi rallegrò e mi commosse nello stesso tempo perché non è di tutti i giorni sentire cantare una mamma novantenne. Quante cose ancora potrei dire di te, ma penso che le linee con le quali ho disegnato il tuo ritratto siano sufficienti. Altri dettagli resteranno con me nell’intimità del mio cuore per sempre.
Il tuo canto quel mattino fu come il canto del cigno, poco tempo dopo ci lasciasti per il tuo viaggio senza ritorno.
Nella tua agonia nell’ultimo alito di vita che ti restava ti dissi “Sono qui vicino a te” e le tue labbra vollero accennare un sorriso appena percettibile, poi la tua espressione sprofondò nel nulla dell’oscurità e in quel momento compresi che avevo perso per sempre chi più avevo amato nella mia vita-la mamma-.

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