Mai mi passò per la mente scrivere qualcosa sulla personalità di mia
madre. Ma incontrando spesso molti conoscenti che mi parlano di lei con tanta
simpatia e cordialità, decisi di farlo, poiché attraverso loro emergono dalle
nebbie del tempo aspetti, condizioni e particolari della sua vita che danno
merito alla sua memoria e lo faccio per tutti quelli che la conobbero, la
stimarono, e le hanno voluto bene.
Madre, le cinque lettere che formano questo nome mi sono così care che
un pudico ritegno mi inibisce per scrivere con scioltezza cose che ricordino la
nostra convivenza. Una delle ragioni che mi spinge a farlo è che tu non fosti
solo una donna che si consumò fra le quattro pareti domestiche tra i fornelli e
i tegami. Fosti anche, nella tua modesta e minuta persona, un personaggio
pubblico. Fosti bidella nelle scuole elementari fra bambini che ora sono già
anziani e ancora ricordano quando passavi tra i banchi a riempire d’inchiostro
i calamai, o quando qualcuno di loro giocando e correndo nel cortile durante la
ricreazione, cadeva, e tu gli curavi le ferite con lo stesso amore come fossero
tuoi figli. Eri un’eccellente cuoca e per diversi anni alimentasti i bambini
che frequentavano la colonia elioterapica giù sulle rive del Tagliamento.
Anche questi ti ricordano e non si sono dimenticati della squisitezza
dei tuoi minestroni come solo tu li sapevi preparare, la pastasciutta, le
patatine fritte al rosmarino, e il resto degli alimenti che completavano la
loro dieta.
Ma non solo dentro del perimetro del tuo paese, ma anche fuori di
questo, sei ricordata per la tua integrità morale, la tua gentilezza, la tua
disponibilità. Così ti comportavi anche con qualsiasi persona occasionale che
incontrassi nel tuo che fare quotidiano. Mi sorprendono gratamente le tante
persone che ti ricordano a molti anni dalla tua scomparsa, questo significa che
hai lasciato una luminosa scia nella traiettoria della tua vita. Con umiltà
scrivo di te che fosti madre mia, ma nello stesso tempo nutro un pensiero
riverente per tante altre buone madri che ugualmente meriterebbero essere
ricordate. Tu già non sei tra noi e scrivo di te per darti a conoscere meglio a
tutti quelli che ti hanno stimata e voluto bene, e lo faccio con un sano
impulso privo di qualsiasi stimolo vanitoso.
Io non sono poeta per scriverti un poema che porti alla superficie, alla
luce, tutta la brillantezza che emanava dalla tua immagine, come lo hanno fatto
Gogol, De Amicis, Pascoli, Beecher e tanti altri insigni scrittori che hanno
saputo creare un ritratto della madre esaltando le virtù, le manifestazioni d’amore
e l’eroicità nel sacrificio per i figli, valori che ci restano incollati nel
nostro essere per portarli con noi fino alla tomba. Prova di questo fu quando
assistii agli ultimi spasmi agonici di mio fratello ormai novantenne e in un
filo di voce che ancora gli restava, mamma fu l’ultima parola che pronunciarono
le sue labbra.
Quante cose sapevi fare madre, e risolvere nel momento opportuno quando
le circostanze richiedevano una soluzione, come durante la grande crisi del
1929 che ridusse critica la nostra condizione familiare e nostri piatti
passarono dall’aragosta alla sardina. Durante la seconda guerra mondiale che
mancavano gli alimenti ed era veramente difficile trovare qualcosa da mettere
nel piatto all’ora dei pasti tu trovavi sempre il modo di sfamare i tuoi figli
e non poche volte la soluzione la trovavi nei prati circostanti la casa.
Raccoglievi delle erbe, che tu conoscevi, e da queste dopo cucinate ne usciva
un purè che accompagnato con polenta di mais era una pietanza deliziosa. Il
nome di tale composto era: lidum o pistum.
Vorrei appostare a che le nuove generazioni non conoscono queste erbe
commestibili e solo come dato curioso voglio segnare i loro nomi nella nostra
lingua friulana, poiché non li conosco in altro linguaggio. Pestelac, malve,
capeles di predi, pivides di pan e vin, confenon, plantai e sclupit.
Eri capace di fare molte cose con le tue mani, però la tua vocazione era
destreggiarti nell’arte culinaria, fare la cuoca, e ci sei riuscita. Sposalizi,
battesimi, comunioni e altre ricorrenze mamma Maria era chiamata per arricchire
le mense con le tue squisite e prelibate vivande. In casa cucinavi, tra i tuoi
piatti forti era il coniglio e mentre si cucinava e ti dovevi assentare io ero l’incaricato
di vigilare la cottura. Mi dicevi: “Guarda che deve cuocere “dasi adasi”
(adagio adagio) e nel “spolert” (cucina a legna), metti di tanto in tanto un
paletto di legno e rimuovi delicatamente aggiungendo, se necessaria, mezza
tazzina d’acqua ”. Così non solo venni a conoscenza di qualcuno dei tuoi
segreti culinari, ma divenni un esperto nel cosificare la fiamma, che è molto
importante per il buon esito di una buona cucina. E quando dal tegame si
diffonde quel delizioso aroma che invade l’intorno, non si può resistere la
tentazione di prendere uno zampino e gustare il sapore delle erbe aromatiche,
le spezie e altri componenti del condimento che portavano il tuo marchio
segreto risultando semplicemente una squisitezza. Risultava poi che quel coniglio
si riduceva ad un esemplare di sole tre gambe e tu dandotene conto conoscevi già
il mistero di quell'anomalia.
Altra qualità era dotata la tua personalità, la bontà. Quando uno
qualsiasi dei tuoi quattro figli ti diceva di aver visto un mendicante per le
vie del paese lo mandavi a cercare e mai andava via dalla nostra casa con lo
stomaco vuoto.
Ora restiamo fra noi tra le cose di casa nostra, giunse l’epoca che ero diventato
un giovanotto con certe esigenze e certe necessità, mi piaceva andare a ballare,
quando si presentava l’occasione e dovevo salvare le apparenze con le ragazze
che invitavo. Al papà chiedevo denaro e mi dava sempre poco e gli dicevo,
ricevendo le poche lire che mi dava, che un giorno avrei foderato il suo tavolo
da lavoro con carte da “100”. Tu mamma aggiungevi altro, poco, però, risultava
sempre poco. A te mamma dicevo che avrei comprato una nuova bicicletta o un
vestito di gala, cosa che muoveva un velato e chissà ad un incredulo sorrisino.
Un giorno nella tua camera, madre, scopersi qualcosa di voluminoso appeso sotto
un cappotto appeso all’attaccapanni. Era una borsetta nera di cuoio e nell’interno
conteneva un buon pacchetto di monete di diversi piccoli tagli, quello di più
valore era di dieci lire, questi erano pochi, gli altri erano da cinque, da due
e da una lira. Questa scoperta mi permise di arrotondare qualcosa in più per le
mie piccole spese. Questo gruzzoletto erano le rimanenze della spesa
giornaliera e ti servivano per comprarti qualcosa di tanto in tanto di tua
necessità.
Nel dopoguerra, riaprendosi il mercato del lavoro nei paesi europei,
ebbi la fortuna di avere un contratto di lavoro in Svizzera, così migliorarono
le mie condizioni economiche. Al ritorno in Italia a fine contratto, compii la
promessa che avevo fatto a papà. A te mamma confessai dei miei piccoli furti
nella tua borsetta, cosa che tu ti eri già data conto della mancanza del
denaro, sebbene io avessi usato l’accortezza di non far diminuire il volume
cambiando i biglietti da cinque e dieci lire, reintegrandoli con monete da una
o due, in modo che il volume fosse lo stesso, ma la quantità in valore era
notevolmente diminuita. Con questa confessione ebbe fine la perplessità dell’ammanco
e anche a te diedi per decuplicato il maltolto in forma malandrina.
Fin da molto giovane mi preoccupai delle ristrettezze economiche della
mia famiglia e mi tormentava il pensiero di come avrei potuto migliorare la
situazione. Anch’io, come mio padre, varcai l’Oceano in cerca di fortuna. Lui
lo fece dopo il crollo del 1929 che lasciò la nostra famiglia sul lastrico. La
dea bendata per lui rimase cosi, bendata e sorda, senza apportargli nessun
miglioramento economico. Io emigrai dopo la seconda guerra mondiale, quando lui
aveva già lasciato questo mondo. Rimase la mamma e a lei riuscii a dare una
certa tranquillità economica e mi compiacevo ogni volta che le mandavo un
assegno che lei cambiava in una banca di Spilimbergo. Mi raccontano che quando andava
a prendere la corriera per recarsi a cambiare il suo assegno indossava la sua
roba migliore: vestito nero con colletto di pizzo bianco, lo spolverino e i
guanti neri. Così tutta in ghingheri, magari con i suoi vestiti un po’ fuori
moda, residui di tempi migliori, andava in banca a cambiare il cheque che le
mandavo ogni mese. A mia volta in un rientro in Italia fui alla stessa banca e,
visto il mio cognome, mi chiesero se fossi il figlio di quella donnetta così e
così, dandomi i dettagli di mia madre. Compresi che anche gli impiegati che
avevano avuto da fare con lei erano stati conquistati dalla sua grazia e
simpatia.
Mamma la tu avita non si differenzia da quella di tanti tuoi simili,
fatta di lati e bassi, di gioie e dolori. Sicuramente un giorno sereno e
gioioso fu, quando, per una vacanza, venni in Italia e un mattino molto presto mi
svegliò un dolce canto di una voce quasi fosse quella di un bambino.
Incuriosito per sapere di chi era quella voce e quel cantare cosi di buon ora,
aprii la finestra che dava sull’orto e lì eri tu alle prese con i tuoi pomodori
ed eri proprio tu che cantavi. Il tuo canto mi rallegrò e mi commosse nello
stesso tempo perché non è di tutti i giorni sentire cantare una mamma
novantenne. Quante cose ancora potrei dire di te, ma penso che le linee con le
quali ho disegnato il tuo ritratto siano sufficienti. Altri dettagli resteranno
con me nell’intimità del mio cuore per sempre.
Il tuo canto quel mattino fu come il canto del cigno, poco tempo dopo ci
lasciasti per il tuo viaggio senza ritorno.
Nella tua agonia nell’ultimo alito di vita che ti restava ti dissi “Sono
qui vicino a te” e le tue labbra vollero accennare un sorriso appena
percettibile, poi la tua espressione sprofondò nel nulla dell’oscurità e in
quel momento compresi che avevo perso per sempre chi più avevo amato nella mia
vita-la mamma-.
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