Tornare indietro
nel tempo per ricostruire la figura della tua personalità, e soprattutto la
parte di padre che ti è toccato adempiere nella vita, non mi sarà cosa facile
per il molto tempo interposto perciò voglio farlo prima che la nebbia degli
anni possa offuscare la mia mente, essendo già in età anziana, e cancellare i
ricordi avvolti nell’intrico del passato dal quale mi propongo di trarre
elementi per comporre il tuo ritratto. Lo faccio per soddisfare un intimo
desiderio che vuole riviverti, ma anche con l’orgoglio che i miei figli, tuoi
nipoti e pronipoti gli sia dato conoscere un po’ il loro nonno e bisnonno,
personaggio che in questa ricerca affiora con un’immagine di integrità
solvente, di padre, marito e cittadino. Spero che i tuoi nipoti sappiano
valutare i tuoi meriti anche se il loro metro di valutazione dei valori nell’epoca
attuale sia sostanzialmente cambiato. Non pretendo fare una cronistoria di
tutto il tempo che sei stato fra noi e di tutti gli alti e bassi della nostra
esistenza e delle nostre vicissitudini succedutesi durante tutto quel lungo
tempo. Mi limiterò ai momenti e fatti più risaltanti nell’insieme, e del nostro
vivere quotidiano. Mi riferirò prima di tutto a noi due. Io ultimo arrivato
nella famiglia, dopo altri tre fratelli maggiori. Venni al mondo dopo diversi
anni dal fratello che mi precedeva perciò nella mia qualità di “cucciolo” non
mi mancarono affetto e coccole in seno alla famiglia e devo dire che sempre
sono esistite ottime relazioni affettive tra noi in ogni tempo. Da te papà
nella mia infanzia ho avuto i più originali giocattoli, il tuo ingegno ti
permetteva di fare molte cose meravigliose. Alcuni giocattoli da te costruiti
costruirono l’invidia e l’ammirazione degli amichetti come l’aquilone che
batteva le ali e volando sembrava un uccello enorme, la scimitarra fatta di
legno d’acacia risultava tanto reale che incuteva timore tanto da poter
tagliare teneri germogli e, nella mia fantasia, potevo combattere e vincere
qualsiasi nemico immaginario con quello spada. Mi costruisti una chiesetta con
il suo campanile con campanelle vere dal suono piccolo ma delizioso e le
vetrate della chiesa ispiravano mistici sentimenti. Trenini fatti con i rullini
delle pellicole e casette delle carte fotografiche. Dato che tu eri fotografo
questi erano residui che tu sapevi mettere insieme facendomi felice nei miei
giochi e destando la mia ammirazione per questa tua abilità. Di giocattoli
comprati ne ho avuti ben pochi e la ragione fu che la grande depressione, la
crisi economica del 1929, si ripercuoteva in tutto e si protrasse per molti
anni causando fallimenti di industrie, imprese, commerci grandi e piccoli
subirono il crac finanziario e anche tu, che oltre all’esercizio fotografico
avevi un piccolo negozio, sei rimasto sul lastrico e da questa penuria venne la
necessità di rinunciare a molte cose, e anche a quella di costruire i
giocattoli caserecci per il tuo bambino. Con tale crisi ebbero inizio gli anni
neri per la nostra famiglia, fino ad allora benestante, e per l’intera nazione
e, come se non bastasse questa precaria situazione generale, nella nostra
famiglia si aggiunsero varie disgrazie. All’inizio degli anni trenta in otto
mesi uno dall’altro perdesti i due figli maggiori, uno per incidente stradale,
l’altro per malattia. In tale breve periodo se ne sono andati, uno di 19, l’altro
di 22 anni, età che avrebbero potuto iniziarsi in qualche occupazione e così
contribuire ad alleviare le necessità familiari com’era la speranza che avevi
riposto in loro. Di questo non è necessario dire più nulla. Per rimediare la
situazione in cui versavamo decidesti di emigrare in Argentina allettato da
promesse vendute da un “amico”. Promesse di facile guadagno e di bonanza.
Arrivato in quel Paese la realtà risultò ben differente. Anche in Argentina la
crisi era vigente e non era vero che si mangiassero salami come rape e si
nuotasse nel grano e nel vino, e anche se ciò fosse stato vero non potevi
mandare alla tua famiglia vino, grano e latri cereali perché questi generi
erano disposti a pagare il tuo lavoro. Avevi lasciato in Italia la moglie e
quattro figli che avevano bisogno di tutto e solo un po’ di denaro poteva
essere di sollievo alla nostra precaria condizione. Ciò non fu possibile perché
ti ammalasti di una strana febbre che ti costrinse a cambiare regione e
residenza ed infine a rimpatriare. Malasorte. E se non bastassero i malanni
creatisi intorno ed in seno alla nostra famiglia, nella nostra esistenza, in
tua assenza, il debito, benché esiguo, residuo del tuo negozio, che non potesti
estinguere come pensavi di farlo col miraggio argentino, si portò via la casa e
tutti i nostri beni. La mamma trovò una residenza in un paese vicino, una casa
che non avrebbe dovuto ospitare esseri umani tanto era dissestata, malandata. I
muri colavano e traspiravano a rigoli l’umidità dalle quattro pareti. La camera
dove ci sistemammo noi quattro fratelli, né il soffitto né il tavolato del
pavimento aveva, uno sopra l’altro sotto, senza intonaco alcuno, cosicché tra
le fessure mal combaciate vedevamo la luce che entrava dalle finestre del
solaio e con la luce il freddo. La mamma si dette da fare cercando qualcosa di
meglio, ma fra le poche disponibili solo questa era quella cui potevamo pagare
l’affitto corrispondente alle nostre possibilità al momento. Così rimase la
casa fin quando cambiò il nostro status, e poco a poco potemmo metter mano e
cambiare quello stato cavernoso convertendola in spazi abitabili confortevoli
tanto da meritarsi l’appellativo di “casa”.
Ritornasti dall’Argentina e incominciasti a lavorare facendo fotografie
dando mano al tuo ingegno. Riparavi orologi e tra una cosa e l’altra riuscivi a
soddisfare le necessità vitali e a malapena tutte le altre, dandoci un vivere
decente e onorabile. Fino in quel momento eravamo in troppi a dipendere dal tuo
lavoro ed è sottointeso che dovevamo rinunciare a molte cose. Ciò che non ci è
mancato furono i tuoi insegnamenti, il tuo buon esempio quindi l’onestà, l’educazione
e l’ineccepibile integrità morale.
Una cosa mi incuriosiva; sapevo che avevi imparato l’arte fotografica in
uno studio a San Daniele e una rivista dell’epoca, riferendosi al tuo
principale, faceva menzione molto elogiosa anche di te. La sorpresa fu che
nessuno ti aveva insegnato a mettere mano agli orologi, vedendoti lavorare in
tali macchine dal congegno tanto complicato, smontandole e riducendole in
rotelline e microscopiche vitine, pensai che non era solo ingegno il tuo, ma
acume intellettuale, volontà e dedizione di trovare il guasto e riparalo.
Questo andava più in là dell’ingegno e in me causavi tanta stima e ammirazione.
Siamo negli anni trenta e riferirsi ad essi è sinonimo di
disoccupazione, povertà, miseria e indigenza dovute alla situazione prodotta
dalla crisi socio-economica generalizzata in tutta Italia e si può dire in tutto
il Mondo civilizzato ed evoluto. La crisi con il sovrastrascico di penurie
involucrò maggiormente la
classe media e medio bassa dov’era inglobata la grande massa operaia e
contadina, risultando queste le più sofferte. La ragione immediata fu che furono
vittime della grande crisi del “29” l’industria e il commercio, maggiori fonti
di lavoro. Paralizzandosi, per riflesso, tutto e tutti, chi più chi meno,
patimmo le conseguenze. Nella nostra famiglia, nei primi anni della decade
degli anni trenta, come già accennato al principio, venne ad aggiungersi una
grande disgrazia: la morte dei miei due fratelli maggiori. Le sventure non
erano ancora finite per noi. Mio fratello, quello che mi precedeva in età,
qualche anno prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, s’imbarcò per l’Africa
orientale per andare a lavorare. Su di lui si appoggiava la speranza di avere
un aiuto per la nostra famiglia, ma la nave ad un certo punto del viaggio
incagliò sbattendo contro gli scogli e affondò. Si salvò miracolosamente
perdendo tutto il corredo che aveva esaurito tutte le nostre risorse per
metterlo insieme. Dalla nave che venne a soccorrere i naufraghi sbarcò in
Africa in mutandine però salvo grazie a Dio.
Qualche anno dopo scoppiò la guerra, fu richiamato sotto le armi,
partecipò alla guerra in Abissinia e fu uno degli eroici resistenti all’assedio
di Gondar al comando del duca d’Aosta. Fu fatto prigioniero dagli inglesi e
ritornò in seno alla famiglia dopo lunghi e sofferti dieci anni. Tu, la mamma e
tutti insieme soffrimmo molto le avversità e le batoste che ci colpirono in
vari modi e ancora non terminavano.
Sopragiunse la guerra. La guerra con il cumulo di penurie, fame, paure e
l’oppressione dell’invasore che si manifestava in ogni dove, in ogni forma con
arroganza, violenza e morte. Questa repressione ci lasciava una sopravvivenza
da sentirci braccati come animali, senza rispetto né diritti umani, tanto da
poter ben dire che la vita in quelle condizioni non valeva nulla. La nostra
casa, perciò la nostra sicurezza, era minacciata dai tiri di mortaio che
venivano da una colonnina di fronte dove i tedeschi si erano piazzati cosicché
abbiamo dovuto abbandonarla e ricorrere all’ospitalità di amici in una frazione
lontana da quelle cannonate. Io dopo anni di servizio militare da quel momento
mi incorporai nelle formazioni partigiane fino al termine della guerra e fu in
questi ultimi giorni di guerra quando cercavi scampo per metterti a salvo dalle
orde che cercavano disperatamente di lasciare l’Italia per raggiungere il loro
paese, ti sorpresero nel cammino, ti derubarono del denaro e delle cose di
valore che cercavi di portare al sicuro, ti atterrarono con un colpo alla testa
con il calco del fucile e già in terra ti spararono, passando la pallottola di
striscio sul cuoio capelluto lasciandoti per morto in mezzo alla strada. Sono
passate ore prima che riprendessi i sensi tanto che a me comunicarono che eri
morto, però sei sopravvissuto allora, ma le lesioni ricevute furono la causa
della tua morte prematura pochi anni dopo.
A onor del vero si può dire che, al termine della guerra, tu, io e il
fratello eravamo vivi o per meglio dire sopravvissuti!, poiché la morte ci fu
vicina, molto vicina, in molte circostanze. Dopo la tua scomparsa avvenuta nell’immediato
post guerra, la vita lentamente rientrava nella normalità. Normalità dentro le
conseguenze lasciate dalla guerra, ancora un’Italia paralizzata e in rovina, e
ci vollero molti anni ancora per godere dell’agognata e vera normalità. Molti
di noi giovani abbiamo dovuto cercare la nostra realizzazione nell’emigrazione
all’estero poiché non potevamo attendere la ricostruzione e il conseguente boom
economico. Le nostre esigenze erano immediate così anch’io dovetti lasciare i
miei cari rimasti e d’un tratto trovarmi molto lontano con il magone della
nostalgie e nello stesso tempo con la serenità che da la speranza di un
avvenire migliore. In Italia le cose si accomodarono, la situazione economica
migliorò portando un periodo di bonanaza, come non mai, e così la vita scorreva
tranquilla e serena proiettata verso il progresso e il benessere. Felicità
dunque. Dimentichi già della guerra, meno quelli che avevano ancora le spine
nel corpo e nell’anima e le madri che persero i loro figli nel conflitto e non
gli mancavano ancora lacrime calde da versare. La vita comunque è così calici
dolci e calici amari. In questo clima di pace e serenità passarono molti anni
quando, inaspettatamente, nel maggio del 1976 dovemmo inghiottire un altro
calice veramente amaro. Una disgrazia collettiva, un violento e distruttivo
terremoto devastò il Friuli causando distruzione e morte. Paesi interi con le
case crollate e un migliaio di morti. Anche la nostra casa soffrì molti danni e
dovemmo abbandonarla e sistemarci nel modo e dove le autorità pubbliche ci destinarono:
in un primo tempo in tende dell’esercito poi in casette di legno prefabbricate,
tutti passammo incomodità e sofferenze, specialmente la gente anziana tra cui
la mamma. Questa evacuazione durò dai 5 ai 6 anni fin quando ripararono o
costruirono case nuove, e anche la nostra fu ricostruita, e quando invitai la
mamma e vederla rimessa a nuovo non volle accompagnarmi a vedere la casa che
tanto amava. Il dramma del terremoto l’aveva scioccata, traumatizzata e poco
dopo anche lei ci lasciò per sempre. Aveva 94 anni e fu autosufficiente fin
poco tempo prima. Lei la mamma, con profondo amore va ricordata per aver
affrontato, con valore e sacrificio, tutte le avverse vicissitudini
presentatesi. Fu presente in ogni situazione e condizione silenziosamente, senza
lamentarsi mai. Per questa sua partecipazione, che molte volte le richiedeva di
andare più in là del dovere di moglie e di madre, la sua immagine risalta con
vivida luce. Luce fatta di amore, coraggio e dedizione completa per il bene di
tutti noi. Il terremoto ci ha traumatizzati tutti. Nelle nostra famiglia non ha
causato vittime ma abbiamo patito le conseguenze di tale disastro e dovuto
sommarle alle già tante calamità sofferte.
Tornando a noi due papà, e rivivendo nel ricordo i fatti più
significativi vissuti durante un avita, nonostante il tanto tempo passato, da
quando ci hai lasciato per sempre, mi sembra come se tutto fosse successo ieri,
ma molto tempo è trascorso, tanto che anch’io ho raggiunto l’anzianità
accumulando tante esperienze perciò queste memorie si stanno prendendo sempre
più spazio e tempo del previsto e non posso tralasciarle, ometterle, poiché
sono parte intrinseca della nostra convivenza. In primo piano il mestiere che
ho imparato da te, il lunghi anni che furono necessari per assimilare i tuoi
insegnamenti che determinarono la base della professione cha a mia volta
esercitai dopo aver allegato aggiornamenti, metodi e tecnologie più moderne che
resero più agevole la pratica dell’arte fotografica. Tu venivi dalla vecchia
scuola, e anche questa professione, come tante cose, si è evoluta. Nonostante
molti tuoi principi e metodi sono ancora validi. Eri molto bravo e abile nel
tuo lavoro, tanto che ancor oggi, vecchi clienti, mi mostrano con orgoglio
fotografie fatte da te. E da me avrai sempre l’ammirazione per i tuoi
ingrandimenti in bianco e nero ricavati da vecchi ritratti già ingialliti e
corrosi dal tempo dove a malapena si riusciva ad indovinare l’immagine. Qui è
dove si manifestava la tua abilità, il tuo ingegno e sorgeva dalle tue mani un’opera
incredibile di ricostruzione mantenendo l’identità fisionomica del soggetto e
non solo, li vestivi a nuovo con abito, cravatta e camicia. Tentai di emularti
in questo tipo di lavoro ma penso di essere riuscito solo a metà nell’intento.
Dove raggiunsi un ottimo livello, al fine con la tua approvazione, fu nel
ritocco dei negativi. Un giorno mi desti una lastra con l’immagine di una donna
dal viso lentigginoso e rugoso, mi spiegasti la tecnica del ritocco, mi
consegnasti i non molti attrezzi attinenti a questo lavoro, tra l’altro le
matite di varia tonalità che solo ad appuntirle era già un’arte per la punta
lunga e finissima da ottenere. Da quel momento passarono tre mesi, lavorando
tutti i giorni, quando la fine mi dicesti che avevo fatto un buon lavoro. In
quei tre mesi ritoccavo, cancellavi, ritoccavo, cancellavi e così molte volte,
al fine, unito alla tua approvazione, mi regalasti due lire, somma
considerevole in quel tempo. Con due lire in tasca mi sentii ricco e felice in
attesa della sagra dell’Assunta. In altre occasioni dovevo cavarmela con 25 o
30 centesimi che si e no bastavano per comprarmi un pugno di rachidi e una
fetta di anguria. Stavolta avrei potuto offrire qualcosa di buono anche alla
mia forosetta che mi avrebbe accompagnato in quel giorno alla sagra. Mi sentivo
un magnate, quasi quasi da poter chiedere quanto costasse tutta la cesta di
ciambelle che vendeva la donna dei dolciumi.
Oltre il ritocco imparai da te tutto il resto per avviarmi nel
professionismo e da parte mia con studio e dedizione giunsi ad un buon livello
che mi procurò molte soddisfazioni e lodevoli riconoscimenti.
Un riconoscimento speciale al tuo ingegno, al tuo spirito creativo, lo
merita l’invenzione di una valvola per pneumatici per cui ti fu concesso il “brevetto”
dalla “federazione italiana inventori” ritenendola e attribuendole praticità e
originalità come nessun altra prodotta dall’industria in quel momento in uso
sul mercato. Per il brevetto ti è stata fatta un’offerta sostanziosa di denaro.
No hai accettato, e fu un grande errore, quel denaro in quel momento poteva
risolvere buona parte dei nostri problemi. Pensiamo che tutti commettiamo
errori più o meno importanti nella nostra vita, e quello fu il tuo. La tua
intenzione era di poterla fabbricare tu stesso in società con un amico
meccanico che possedeva una piccola officina. Avevate tanto impegno e voglia di
fare ma vi mancavano la conoscenza del mercato, attrezzatura e finanziamento
per installare un’industria del genere. Avevi una mente sempre attiva,
meditativa, con sprazzi di genialità e oltre alla valvola altre invenzioni
nacquero, che non ottennero l’approvazione della “federazione” anche se furono
elogiate stimolandoti a perfezionare, modificare per poi riesaminarle. Anche in
questo la guerra paralizzò tutti i piani. Ciò che fu quasi un’ossessione nella
tua mente fu il “moto perpetuo” per i tuoi marchingegni, dai tuoi schizzi
disegnavo i prototipi. Di tutto ciò rimane di te un’aureola che arricchisce la
tua personalità e da brillo alla tua intelligenza.
Con queste memorie ho voluto ricordarti e con te
emerse, ovviamente, anche la nostra famiglia con i momenti e i fatti più
trascendentali. Nonostante il mio desiderio di sintetizzare più possibile il
racconto, altri fatti, altre vicende resteranno nei miei ricordi in quelle
pieghe dell’animo che non si può compatire appartenendo solo alla mia intimità.
Ma uno di essi lo voglio confessare. Quando la dama vestita di nero venne a
prenderti perché era giunta la tua ora, prima che ti portassero all’ultima dimora
salii dove stava il tuo corpo esanime e accarezzai le tue mani, quelle mani che
oltre ad essere state tanto ingegnose avevano saputo dare anche una carezza. Ti
detti un bacio sulla fronte fredda e fu una gelata sensazione che rivivo ancora
oggi. Quello fu il mio ultimo saluto che volli ti accompagnasse nel tuo viaggio
senza ritorno.
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