8 de noviembre de 2011

MIO PADRE


Tornare indietro nel tempo per ricostruire la figura della tua personalità, e soprattutto la parte di padre che ti è toccato adempiere nella vita, non mi sarà cosa facile per il molto tempo interposto perciò voglio farlo prima che la nebbia degli anni possa offuscare la mia mente, essendo già in età anziana, e cancellare i ricordi avvolti nell’intrico del passato dal quale mi propongo di trarre elementi per comporre il tuo ritratto. Lo faccio per soddisfare un intimo desiderio che vuole riviverti, ma anche con l’orgoglio che i miei figli, tuoi nipoti e pronipoti gli sia dato conoscere un po’ il loro nonno e bisnonno, personaggio che in questa ricerca affiora con un’immagine di integrità solvente, di padre, marito e cittadino. Spero che i tuoi nipoti sappiano valutare i tuoi meriti anche se il loro metro di valutazione dei valori nell’epoca attuale sia sostanzialmente cambiato. Non pretendo fare una cronistoria di tutto il tempo che sei stato fra noi e di tutti gli alti e bassi della nostra esistenza e delle nostre vicissitudini succedutesi durante tutto quel lungo tempo. Mi limiterò ai momenti e fatti più risaltanti nell’insieme, e del nostro vivere quotidiano. Mi riferirò prima di tutto a noi due. Io ultimo arrivato nella famiglia, dopo altri tre fratelli maggiori. Venni al mondo dopo diversi anni dal fratello che mi precedeva perciò nella mia qualità di “cucciolo” non mi mancarono affetto e coccole in seno alla famiglia e devo dire che sempre sono esistite ottime relazioni affettive tra noi in ogni tempo. Da te papà nella mia infanzia ho avuto i più originali giocattoli, il tuo ingegno ti permetteva di fare molte cose meravigliose. Alcuni giocattoli da te costruiti costruirono l’invidia e l’ammirazione degli amichetti come l’aquilone che batteva le ali e volando sembrava un uccello enorme, la scimitarra fatta di legno d’acacia risultava tanto reale che incuteva timore tanto da poter tagliare teneri germogli e, nella mia fantasia, potevo combattere e vincere qualsiasi nemico immaginario con quello spada. Mi costruisti una chiesetta con il suo campanile con campanelle vere dal suono piccolo ma delizioso e le vetrate della chiesa ispiravano mistici sentimenti. Trenini fatti con i rullini delle pellicole e casette delle carte fotografiche. Dato che tu eri fotografo questi erano residui che tu sapevi mettere insieme facendomi felice nei miei giochi e destando la mia ammirazione per questa tua abilità. Di giocattoli comprati ne ho avuti ben pochi e la ragione fu che la grande depressione, la crisi economica del 1929, si ripercuoteva in tutto e si protrasse per molti anni causando fallimenti di industrie, imprese, commerci grandi e piccoli subirono il crac finanziario e anche tu, che oltre all’esercizio fotografico avevi un piccolo negozio, sei rimasto sul lastrico e da questa penuria venne la necessità di rinunciare a molte cose, e anche a quella di costruire i giocattoli caserecci per il tuo bambino. Con tale crisi ebbero inizio gli anni neri per la nostra famiglia, fino ad allora benestante, e per l’intera nazione e, come se non bastasse questa precaria situazione generale, nella nostra famiglia si aggiunsero varie disgrazie. All’inizio degli anni trenta in otto mesi uno dall’altro perdesti i due figli maggiori, uno per incidente stradale, l’altro per malattia. In tale breve periodo se ne sono andati, uno di 19, l’altro di 22 anni, età che avrebbero potuto iniziarsi in qualche occupazione e così contribuire ad alleviare le necessità familiari com’era la speranza che avevi riposto in loro. Di questo non è necessario dire più nulla. Per rimediare la situazione in cui versavamo decidesti di emigrare in Argentina allettato da promesse vendute da un “amico”. Promesse di facile guadagno e di bonanza. Arrivato in quel Paese la realtà risultò ben differente. Anche in Argentina la crisi era vigente e non era vero che si mangiassero salami come rape e si nuotasse nel grano e nel vino, e anche se ciò fosse stato vero non potevi mandare alla tua famiglia vino, grano e latri cereali perché questi generi erano disposti a pagare il tuo lavoro. Avevi lasciato in Italia la moglie e quattro figli che avevano bisogno di tutto e solo un po’ di denaro poteva essere di sollievo alla nostra precaria condizione. Ciò non fu possibile perché ti ammalasti di una strana febbre che ti costrinse a cambiare regione e residenza ed infine a rimpatriare. Malasorte. E se non bastassero i malanni creatisi intorno ed in seno alla nostra famiglia, nella nostra esistenza, in tua assenza, il debito, benché esiguo, residuo del tuo negozio, che non potesti estinguere come pensavi di farlo col miraggio argentino, si portò via la casa e tutti i nostri beni. La mamma trovò una residenza in un paese vicino, una casa che non avrebbe dovuto ospitare esseri umani tanto era dissestata, malandata. I muri colavano e traspiravano a rigoli l’umidità dalle quattro pareti. La camera dove ci sistemammo noi quattro fratelli, né il soffitto né il tavolato del pavimento aveva, uno sopra l’altro sotto, senza intonaco alcuno, cosicché tra le fessure mal combaciate vedevamo la luce che entrava dalle finestre del solaio e con la luce il freddo. La mamma si dette da fare cercando qualcosa di meglio, ma fra le poche disponibili solo questa era quella cui potevamo pagare l’affitto corrispondente alle nostre possibilità al momento. Così rimase la casa fin quando cambiò il nostro status, e poco a poco potemmo metter mano e cambiare quello stato cavernoso convertendola in spazi abitabili confortevoli tanto da meritarsi l’appellativo di “casa”.
Ritornasti dall’Argentina e incominciasti a lavorare facendo fotografie dando mano al tuo ingegno. Riparavi orologi e tra una cosa e l’altra riuscivi a soddisfare le necessità vitali e a malapena tutte le altre, dandoci un vivere decente e onorabile. Fino in quel momento eravamo in troppi a dipendere dal tuo lavoro ed è sottointeso che dovevamo rinunciare a molte cose. Ciò che non ci è mancato furono i tuoi insegnamenti, il tuo buon esempio quindi l’onestà, l’educazione e l’ineccepibile integrità morale.
Una cosa mi incuriosiva; sapevo che avevi imparato l’arte fotografica in uno studio a San Daniele e una rivista dell’epoca, riferendosi al tuo principale, faceva menzione molto elogiosa anche di te. La sorpresa fu che nessuno ti aveva insegnato a mettere mano agli orologi, vedendoti lavorare in tali macchine dal congegno tanto complicato, smontandole e riducendole in rotelline e microscopiche vitine, pensai che non era solo ingegno il tuo, ma acume intellettuale, volontà e dedizione di trovare il guasto e riparalo. Questo andava più in là dell’ingegno e in me causavi tanta stima e ammirazione.
Siamo negli anni trenta e riferirsi ad essi è sinonimo di disoccupazione, povertà, miseria e indigenza dovute alla situazione prodotta dalla crisi socio-economica generalizzata in tutta Italia e si può dire in tutto il Mondo civilizzato ed evoluto. La crisi con il sovrastrascico di penurie involucrò   maggiormente la classe media e medio bassa dov’era inglobata la grande massa operaia e contadina, risultando queste le più sofferte. La ragione immediata fu che furono vittime della grande crisi del “29” l’industria e il commercio, maggiori fonti di lavoro. Paralizzandosi, per riflesso, tutto e tutti, chi più chi meno, patimmo le conseguenze. Nella nostra famiglia, nei primi anni della decade degli anni trenta, come già accennato al principio, venne ad aggiungersi una grande disgrazia: la morte dei miei due fratelli maggiori. Le sventure non erano ancora finite per noi. Mio fratello, quello che mi precedeva in età, qualche anno prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, s’imbarcò per l’Africa orientale per andare a lavorare. Su di lui si appoggiava la speranza di avere un aiuto per la nostra famiglia, ma la nave ad un certo punto del viaggio incagliò sbattendo contro gli scogli e affondò. Si salvò miracolosamente perdendo tutto il corredo che aveva esaurito tutte le nostre risorse per metterlo insieme. Dalla nave che venne a soccorrere i naufraghi sbarcò in Africa in mutandine però salvo grazie a Dio.
Qualche anno dopo scoppiò la guerra, fu richiamato sotto le armi, partecipò alla guerra in Abissinia e fu uno degli eroici resistenti all’assedio di Gondar al comando del duca d’Aosta. Fu fatto prigioniero dagli inglesi e ritornò in seno alla famiglia dopo lunghi e sofferti dieci anni. Tu, la mamma e tutti insieme soffrimmo molto le avversità e le batoste che ci colpirono in vari modi e ancora non terminavano.
Sopragiunse la guerra. La guerra con il cumulo di penurie, fame, paure e l’oppressione dell’invasore che si manifestava in ogni dove, in ogni forma con arroganza, violenza e morte. Questa repressione ci lasciava una sopravvivenza da sentirci braccati come animali, senza rispetto né diritti umani, tanto da poter ben dire che la vita in quelle condizioni non valeva nulla. La nostra casa, perciò la nostra sicurezza, era minacciata dai tiri di mortaio che venivano da una colonnina di fronte dove i tedeschi si erano piazzati cosicché abbiamo dovuto abbandonarla e ricorrere all’ospitalità di amici in una frazione lontana da quelle cannonate. Io dopo anni di servizio militare da quel momento mi incorporai nelle formazioni partigiane fino al termine della guerra e fu in questi ultimi giorni di guerra quando cercavi scampo per metterti a salvo dalle orde che cercavano disperatamente di lasciare l’Italia per raggiungere il loro paese, ti sorpresero nel cammino, ti derubarono del denaro e delle cose di valore che cercavi di portare al sicuro, ti atterrarono con un colpo alla testa con il calco del fucile e già in terra ti spararono, passando la pallottola di striscio sul cuoio capelluto lasciandoti per morto in mezzo alla strada. Sono passate ore prima che riprendessi i sensi tanto che a me comunicarono che eri morto, però sei sopravvissuto allora, ma le lesioni ricevute furono la causa della tua morte prematura pochi anni dopo.
A onor del vero si può dire che, al termine della guerra, tu, io e il fratello eravamo vivi o per meglio dire sopravvissuti!, poiché la morte ci fu vicina, molto vicina, in molte circostanze. Dopo la tua scomparsa avvenuta nell’immediato post guerra, la vita lentamente rientrava nella normalità. Normalità dentro le conseguenze lasciate dalla guerra, ancora un’Italia paralizzata e in rovina, e ci vollero molti anni ancora per godere dell’agognata e vera normalità. Molti di noi giovani abbiamo dovuto cercare la nostra realizzazione nell’emigrazione all’estero poiché non potevamo attendere la ricostruzione e il conseguente boom economico. Le nostre esigenze erano immediate così anch’io dovetti lasciare i miei cari rimasti e d’un tratto trovarmi molto lontano con il magone della nostalgie e nello stesso tempo con la serenità che da la speranza di un avvenire migliore. In Italia le cose si accomodarono, la situazione economica migliorò portando un periodo di bonanaza, come non mai, e così la vita scorreva tranquilla e serena proiettata verso il progresso e il benessere. Felicità dunque. Dimentichi già della guerra, meno quelli che avevano ancora le spine nel corpo e nell’anima e le madri che persero i loro figli nel conflitto e non gli mancavano ancora lacrime calde da versare. La vita comunque è così calici dolci e calici amari. In questo clima di pace e serenità passarono molti anni quando, inaspettatamente, nel maggio del 1976 dovemmo inghiottire un altro calice veramente amaro. Una disgrazia collettiva, un violento e distruttivo terremoto devastò il Friuli causando distruzione e morte. Paesi interi con le case crollate e un migliaio di morti. Anche la nostra casa soffrì molti danni e dovemmo abbandonarla e sistemarci nel modo e dove le autorità pubbliche ci destinarono: in un primo tempo in tende dell’esercito poi in casette di legno prefabbricate, tutti passammo incomodità e sofferenze, specialmente la gente anziana tra cui la mamma. Questa evacuazione durò dai 5 ai 6 anni fin quando ripararono o costruirono case nuove, e anche la nostra fu ricostruita, e quando invitai la mamma e vederla rimessa a nuovo non volle accompagnarmi a vedere la casa che tanto amava. Il dramma del terremoto l’aveva scioccata, traumatizzata e poco dopo anche lei ci lasciò per sempre. Aveva 94 anni e fu autosufficiente fin poco tempo prima. Lei la mamma, con profondo amore va ricordata per aver affrontato, con valore e sacrificio, tutte le avverse vicissitudini presentatesi. Fu presente in ogni situazione e condizione silenziosamente, senza lamentarsi mai. Per questa sua partecipazione, che molte volte le richiedeva di andare più in là del dovere di moglie e di madre, la sua immagine risalta con vivida luce. Luce fatta di amore, coraggio e dedizione completa per il bene di tutti noi. Il terremoto ci ha traumatizzati tutti. Nelle nostra famiglia non ha causato vittime ma abbiamo patito le conseguenze di tale disastro e dovuto sommarle alle già tante calamità sofferte.
Tornando a noi due papà, e rivivendo nel ricordo i fatti più significativi vissuti durante un avita, nonostante il tanto tempo passato, da quando ci hai lasciato per sempre, mi sembra come se tutto fosse successo ieri, ma molto tempo è trascorso, tanto che anch’io ho raggiunto l’anzianità accumulando tante esperienze perciò queste memorie si stanno prendendo sempre più spazio e tempo del previsto e non posso tralasciarle, ometterle, poiché sono parte intrinseca della nostra convivenza. In primo piano il mestiere che ho imparato da te, il lunghi anni che furono necessari per assimilare i tuoi insegnamenti che determinarono la base della professione cha a mia volta esercitai dopo aver allegato aggiornamenti, metodi e tecnologie più moderne che resero più agevole la pratica dell’arte fotografica. Tu venivi dalla vecchia scuola, e anche questa professione, come tante cose, si è evoluta. Nonostante molti tuoi principi e metodi sono ancora validi. Eri molto bravo e abile nel tuo lavoro, tanto che ancor oggi, vecchi clienti, mi mostrano con orgoglio fotografie fatte da te. E da me avrai sempre l’ammirazione per i tuoi ingrandimenti in bianco e nero ricavati da vecchi ritratti già ingialliti e corrosi dal tempo dove a malapena si riusciva ad indovinare l’immagine. Qui è dove si manifestava la tua abilità, il tuo ingegno e sorgeva dalle tue mani un’opera incredibile di ricostruzione mantenendo l’identità fisionomica del soggetto e non solo, li vestivi a nuovo con abito, cravatta e camicia. Tentai di emularti in questo tipo di lavoro ma penso di essere riuscito solo a metà nell’intento. Dove raggiunsi un ottimo livello, al fine con la tua approvazione, fu nel ritocco dei negativi. Un giorno mi desti una lastra con l’immagine di una donna dal viso lentigginoso e rugoso, mi spiegasti la tecnica del ritocco, mi consegnasti i non molti attrezzi attinenti a questo lavoro, tra l’altro le matite di varia tonalità che solo ad appuntirle era già un’arte per la punta lunga e finissima da ottenere. Da quel momento passarono tre mesi, lavorando tutti i giorni, quando la fine mi dicesti che avevo fatto un buon lavoro. In quei tre mesi ritoccavo, cancellavi, ritoccavo, cancellavi e così molte volte, al fine, unito alla tua approvazione, mi regalasti due lire, somma considerevole in quel tempo. Con due lire in tasca mi sentii ricco e felice in attesa della sagra dell’Assunta. In altre occasioni dovevo cavarmela con 25 o 30 centesimi che si e no bastavano per comprarmi un pugno di rachidi e una fetta di anguria. Stavolta avrei potuto offrire qualcosa di buono anche alla mia forosetta che mi avrebbe accompagnato in quel giorno alla sagra. Mi sentivo un magnate, quasi quasi da poter chiedere quanto costasse tutta la cesta di ciambelle che vendeva la donna dei dolciumi.
Oltre il ritocco imparai da te tutto il resto per avviarmi nel professionismo e da parte mia con studio e dedizione giunsi ad un buon livello che mi procurò molte soddisfazioni e lodevoli riconoscimenti.
Un riconoscimento speciale al tuo ingegno, al tuo spirito creativo, lo merita l’invenzione di una valvola per pneumatici per cui ti fu concesso il “brevetto” dalla “federazione italiana inventori” ritenendola e attribuendole praticità e originalità come nessun altra prodotta dall’industria in quel momento in uso sul mercato. Per il brevetto ti è stata fatta un’offerta sostanziosa di denaro. No hai accettato, e fu un grande errore, quel denaro in quel momento poteva risolvere buona parte dei nostri problemi. Pensiamo che tutti commettiamo errori più o meno importanti nella nostra vita, e quello fu il tuo. La tua intenzione era di poterla fabbricare tu stesso in società con un amico meccanico che possedeva una piccola officina. Avevate tanto impegno e voglia di fare ma vi mancavano la conoscenza del mercato, attrezzatura e finanziamento per installare un’industria del genere. Avevi una mente sempre attiva, meditativa, con sprazzi di genialità e oltre alla valvola altre invenzioni nacquero, che non ottennero l’approvazione della “federazione” anche se furono elogiate stimolandoti a perfezionare, modificare per poi riesaminarle. Anche in questo la guerra paralizzò tutti i piani. Ciò che fu quasi un’ossessione nella tua mente fu il “moto perpetuo” per i tuoi marchingegni, dai tuoi schizzi disegnavo i prototipi. Di tutto ciò rimane di te un’aureola che arricchisce la tua personalità e da brillo alla tua intelligenza.
Con queste memorie ho voluto ricordarti e con te emerse, ovviamente, anche la nostra famiglia con i momenti e i fatti più trascendentali. Nonostante il mio desiderio di sintetizzare più possibile il racconto, altri fatti, altre vicende resteranno nei miei ricordi in quelle pieghe dell’animo che non si può compatire appartenendo solo alla mia intimità. Ma uno di essi lo voglio confessare. Quando la dama vestita di nero venne a prenderti perché era giunta la tua ora, prima che ti portassero all’ultima dimora salii dove stava il tuo corpo esanime e accarezzai le tue mani, quelle mani che oltre ad essere state tanto ingegnose avevano saputo dare anche una carezza. Ti detti un bacio sulla fronte fredda e fu una gelata sensazione che rivivo ancora oggi. Quello fu il mio ultimo saluto che volli ti accompagnasse nel tuo viaggio senza ritorno.

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